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lunedì 20 giugno 2011

Notiziario PuntoRosso - 19-06-2011

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Idee e contributi per l’ALTERNATIVA

Foglio in rete dell’Associazione Culturale Punto Rosso

www.puntorosso.it e-mail: carrara@puntorosso.it

COSTRUIAMO UN

MOVIMENTO PER LA DIFESA

DEI BEI COMUNI

FERMIAMO GLI AVVOLTOI

SIAMO NUOVAMENTE AL

VERDE! CONTIAMO SU DI VOI. NOTA DELLA SETTIMANA

Il bellissimo risultato referendario ci

parla di una maturità popolare raggiunta

sui temi dei beni comuni e

dell’ambiente che difficilmente potrà

essere aggirata: il messaggio politico è

chiaro l’acqua, ma anche gli altri beni

comuni come la conoscenza, la scuola

pubblica, il lavoro ecc. non potranno

essere svenduti, lo stanno a dimostrare

le numerose e multiformi mobilitazioni

che ci sono state in tutti questi mesi nel

Paese. Questo dato unito a quello delle

recenti amministrative indica che la

passione politica e la voglia di partecipare,

sono tornate, soprattutto tra i giovani.

Occorre però da subito essere vigili,

perché le lobby dei privatizzatori, di chi

con una pretesa “imprenditoriale” vorrebbe

assicurarsi profitti sicuri con i

servizi pubblici non mollerà facilmente

questo succulento piatto. Inoltre c’è chi

nonostante il pronunciamento popolare

se ne infischia della democrazia e che

come il presidente di Gaia Tucci annuncia

che intende andare avanti con

la privatizzazione. A questo punto ci

chiediamo ma questo signore è stato

eletto da qualcuno? Chi rappresenta?

Non sa che c’è stato un referendum

popolare e che 27 milioni di cittadini

hanno detto che l’acqua non può esse-

Sommario:

§ - CAMPAGNA PER LA SOPRAVVIVENZA DI PUNTO ROSSO.………………………………….pag. 1

§ - NOTA DELLA SETTIMANA di Ernesto Ligutti...………………………..……….………………..pag. 1

§ - BENI COMUNI E BENI PUBBLICI:

QUALCHE PRECISAZIONEdi Mimmo Porcaro……..…..…………………………………………pag. 2

§ - PROPOSTA PER IL DOPOVOTO di Riccardo Petrella………………………………………......pag. 5

§ - UN VOTO COSTITUENTE di Ugo Mattei……………………………………………………………pag. 6

§ - UNA VITTORIA CHE VIENE DA LONTANO di Stefano Rodotà…………………………………pag. 7

§ - L'ACQUA FERMA L'ONDA LIBERISTA. di Emilio Molinari……………………………………...pag. 9

18 Giugno 2011

CAMPAGNA PER LA SOPRAVVIVENZA

DI PUNTO ROSSO 2010-2011

1991 - 2011: vent'anni di attività dell'Associazione

Culturale Punto Rosso,

di cultura e di politica a sinistra,

dalla parte del pensiero critico e della

giustizia sociale e ambientale

globale.

Facciamo in modo che il Punto Rosso

possa continuare a svolgere le

proprie attività, a superare questo

difficile momento, nel ventennale

della propria esistenza. Invitiamo

tutte e tutti a sottoscrivere. E’ una

questione di vita o di morte.

2

re privatizzata e non si può fare profitti

con essa? Sarebbe l’ora di eliminare le

spa e i consigli di amministrazione che

di certo non fanno l’interesse dei cittadini.

Questo ci fa presagire che le manovre

per aggirare il responso referendario

sono iniziate, infatti già si parla di proposte

ed di leggi regionali e nazionali

per colmare “un vuoto legislativo”. Per

parte nostra saremo vigili e proponiamo

ai movimenti per l’acqua bene comune,

alle forze politiche che hanno sostenuto

i referendum di mantenere in piedi il

Comitato provinciale per l’acqua, allargando

ancora ad altri soggetti per costituire

un Movimento per i Beni Comuni

ed impegnandosi a sostenere, per esempio,

la legge di iniziativa popolare

depositata in Parlamento dai movimenti,

che ha raccolto 400 mila firme (ne

occorrevano 50 mila) sull’acqua, a mobilitarsi

e vigilare e a far tornare l’acqua

sotto il controllo delle comunità locali,

questo era possibile farlo prima e a

maggior ragione è possibile farlo adesso

dopo il referendum prevedendo inoltre

la partecipazione dei cittadini e dei

lavoratori.

BENI COMUNI E BENI PUBBLICI:

QUALCHE PRECISAZIONE

di Mimmo Porcaro

1.

Il tema dei beni comuni si sta rapidamente

diffondendo nel discorso politico

italiano, ricordando a tutti quanto sia

legittimo ribellarsi alla privatizzazione

del mondo e suggerendo che la riappropriazione

sociale delle risorse essenziali

non può ridursi semplicemente

alla loro statizzazione. Come sempre

avviene, diffusione fa rima con confusione

ed ormai si parla di “bene comune”

molto al di là degli ambiti in cui

questa nozione è sorta: ma confusioni,

ambiguità e slittamenti di significato

sono necessari all’affermazione di qualunque

idea, e sarebbe davvero segno

di pedanteria pretendere che la nascita

di una nuova visione avvenga sotto il

segno del rigore definitorio.

Precisare un’idea diviene però doveroso

quando la pur inevitabile confusione

rischia di generare effetti che contraddicono

l’idea stessa, come accade

quando gli slittamenti di significato del

“bene comune” portano a sottovalutare,

o a ritenere del tutto superata la questione

della proprietà pubblica delle risorse

essenziali e degli stessi principali

mezzi di produzione. Cosa che può avere

conseguenze assai negative soprattutto

in un Paese come il nostro, in

cui vent’anni di espropriazione privata

della proprietà pubblica rendono particolarmente

difficile rivendicare la natura

“comune” di qualunque risorsa senza

una contestuale trasformazione delle

strutture proprietarie.

Tentiamo quindi la strada della precisione,

attingendo ad alcune riflessioni

giuridiche1 che distinguono con una

certa nettezza i beni comuni dai beni

pubblici.

Dunque: cosa sono i beni comuni? Sono

i beni che ontologicamente, ossia

per la loro intrinseca natura e per la

loro relativa abbondanza, posseggono

le caratteristiche della non rivalità e della

non esclusività. Sono beni non rivali

perché il loro consumo da parte di ciascuno

non ne inibisce il consumo da

parte di altri, e sono beni non esclusivi

perché tutti possono accedervi senza

che sia necessaria la mediazione di

una qualche forma di proprietà. La proprietà

privata di un bene comune appare

quindi del tutto arbitraria; ma anche

la proprietà pubblica appare qui come

una forma giuridica non strettamente

necessaria, e l’intervento pubblico, in

questo caso, ha più che altro la funzione

di garantire dall’esterno le condizioni

di generale fruibilità del bene. Infine, la

stessa proprietà comune è una sorta di

“proprietà/non proprietà”, ed andrebbe

piuttosto definita come universale disponibilità.

Queste stringatissime annotazioni

possono già far comprendere

come la nozione di bene comune ci aiuti

a ridiscutere la nozione di proprietà

come dominio assoluto di un soggetto

su un oggetto, e quindi a porre razionalmente

il problema della gestione

delle condizioni essenziali della sussi3

stenza umana.

Ma quali sono, infine, i beni identificabili

come comuni? La definizione appena

proposta, a ben vedere, restringe notevolmente

il campo a casi di eccezionale

importanza, ma certamente limitati:

l’aria, l’acqua del mare, l’etere (e sempre

a condizione che i mutamenti tecnologici

non ne modifichino le condizioni

d’accesso). A questi si può peraltro

aggiungere, pur se con qualche cautela,

un particolare ed assai rilevante bene

“sociale”, ossia la conoscenza: nel

caso della conoscenza è evidente che

l’uso del bene da parte di ognuno non

solo non ne preclude l’uso altrui, ma

può addirittura potenziarlo; così come è

chiaro che in questo caso non è legittimata

nessuna “recinzione proprietaria”

e che l’opportuna proprietà pubblica

delle principali infrastrutture del sapere,

nonché la tutela pubblica dell’accesso

al web e del suo libero funzionamento,

se sono essenziali nel realizzare il carattere

non esclusivo del beneconoscenza,

non possono e non devono

comunque tradursi nella proprietà

del processo e dei risultati della conoscenza

stessa.

Detto ciò, comunque, il campo dei veri

e propri beni comuni è assai ristretto,

ed è soggetto a mutazioni temporali.

Prima di tutto va rilevato come la definizione

qui accolta escluda correttamente

dal novero dei beni comuni quelli

appartenenti a singole comunità, a singoli

gruppi di lavoratori o di cittadini:

questi sono piuttosto beni collettivi, beni

fruibili “universalmente” (ossia da tutti

gli individui, senza che nessuno di essi

possa monopolizzarli) ma solo

nell’ambito esclusivo della comunità o

del gruppo. Inoltre, e soprattutto, se è

vero che il bene comune è caratterizzato

anche dalla sua abbondanza è possibile

che questa venga meno col mutare

delle condizioni. I primi “commons”,

la cui espropriazione violenta coincise

con la nascita del capitalismo, consistevano

in terre e foreste un tempo

ampiamente disponibili, ed artificialmente

rese scarse dalle recinzioni forzate.

Ma oggi una simile sovrabbondanza

non è più riscontrabile, come

non è riscontrabile per l’acqua che, in

verità, non è mai stata universalmente

disponibile, tanto che è proprio per assicurarne

un uso razionale ed universale

che sorsero alcuni Stati.

Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che

molti degli elementi essenziali della

sussistenza non possono essere considerati

beni comuni, proprio perché

sono relativamente scarsi e facilmente

soggetti all’appropriazione privata. Ma

è proprio qui che interviene la nozione

di bene pubblico: è pubblico ogni bene

la cui universale fruibilità non è assicurata

da una caratteristica ontologica,

ma da una decisione politica che si traduce

in norme giuridiche che lo sottraggono

alla disponibilità privata ponendolo

sotto la tutela di forme pur diverse

di proprietà pubblica. L’intervento

del soggetto pubblico è, in questo caso,

essenziale e può e deve estendersi fino

a definire alcuni beni, considerati dalla

società come decisivi per la sussistenza

umana, come beni pubblici fondamentali,

tutelati da norme di rango costituzionale

che li rendano indisponibili

ai privati ed inderogabili dal pubblico

stesso.

3.

La grave crisi economica, sociale ed

ambientale che stiamo fronteggiando

non potrà essere risolta positivamente

finché i più importanti mezzi di produzione

e i più ingenti mezzi finanziari

non verranno anch’essi considerati come

beni pubblici fondamentali. Prima di

tutto perché i beni-capitale ed il denaro

sono in ultima analisi il prodotto del lavoro

sociale e della generale capacità

tecnico-scientifica della società; poi

perché essi sono alimentati in maniera

crescente, ed oggi decisiva, dai risparmi

dei lavoratori (fondi pensione, etc.) e

dai debiti pubblici; infine perché la

“macchina mondiale” industriale e finanziaria

è il ormai medium decisivo tra

umanità e natura, ed il suo controllo è

quindi inevitabile. La diffusione dell’idea

dei beni comuni è essenziale alla posizione

ed alla soluzione di questo enorme

problema, ma può d’altronde indur4

re ad eluderlo se l’attenzione è circoscritta

alle sole risorse naturali o se si

pensa che il carattere ormai apertamente

cooperativo (e quindi, come abitualmente

si ritiene, “comune”)

dell’attività umana renda superfluo il

tema della trasformazione dei benicapitale

in beni pubblici.

L’esempio più chiaro di questa ambivalenza

dell’idea è dato dalla nozione di

lavoro come bene comune. Idea decisiva

in quanto sostiene che il lavoro non

può essere ridotto a merce e che la sua

estrinsecazione deve avvenire in forme

libere e democratiche. Ma questa libera

estrinsecazione appare impossibile se

accanto alla rivendicazione del carattere

comune del lavoro non si pone quella

del carattere pubblico dei beni che

oggi costituiscono il capitale. Questa

necessità viene spesso sottaciuta, o

espressa in forme solo indirette ed allusive,

quando non viene esplicitamente

negata.

E’ il caso delle idee che sostengono

che, poiché la conoscenza è un bene

comune, e poiché d’altra parte il lavoro

è oggi essenzialmente conoscenza,

tutto il lavoro può già esprimersi in forme

immediatamente sociali, cooperative

e democratiche senza che sia necessaria

la riappropriazione pubblica

dei mezzi di produzione.

La conclusione è scorretta. E non solo

perché la qualità strategica del lavoro,

oggi, non è tanto la produzione di conoscenze,

quanto la capacità di ricostruire

le relazioni sociali che sono lacerate

dall’incertezza della produzione

contemporanea. Non solo, inoltre, perché

tali capacità relazionali non sono

immediatamente paritarie e “comuni”,

ma si svolgono sotto il segno di una

cooperazione strumentale in cui l’”altro”

è solo un mezzo per l’incremento della

produttività. Anche se il lavoro fosse

tutto riducibile alla cooperazione conoscitiva,

questo suo presunto carattere

comune sarebbe solo potenziale ed

astratto, sarebbe una caratteristica latente

del lavoro vivo, che (come la crisi

drammaticamente ci ricorda) può effettivamente

estrinsecarsi solo se si congiunge

al lavoro morto che esiste nei

mezzi di produzione (sia hardware che

software: anche un programma informatico

“condensa” a suo modo lavoro)

ed al denaro. Beni, questi ultimi, che

non sono affatto comuni, ma possono

divenire pubblici attraverso decisioni

politiche e norme universali che sanciscano

il loro passaggio alla proprietà

pubblica o ad un intreccio tra proprietà

pubblica e proprietà collettive regolate

e coordinate da norme universali.

4.

Sorge ovviamente il problema di evitare

che la proprietà pubblica si traduca nella

confisca del prodotto sociale da parte

di nuove oligarchie. E qui ci soccorre di

nuovo la nozione di bene comune, non

perché

questa possa essere estesa a tutti i beni,

ma perché relativizza tutti i concetti

di proprietà mostrando come di fronte

al sempre più stringente tema della

sussistenza umana, nessuna forma di

proprietà può più essere intesa come

dominio esclusivo di un soggetto su un

oggetto. Anche la proprietà pubblica,

quindi, nel momento stesso in cui viene

rivendicata, deve essere ridefinita in

almeno tre modi.

Prima di tutto con la già ricordata trasformazione

delle condizioni principali

della produzione in beni di rilevanza

costituzionale, non appropriabili dai privati

né utilizzabili dal pubblico in forme

privatistiche.

In secondo luogo integrando la proprietà

pubblica con altre forme di proprietà

che ne costituiscano un temperamento:

proprietà privata, cooperativa, collettiva

ed ovviamente “proprietà” comune. E

considerando il confine tra le diverse

forme di proprietà come mutevole in

funzione del modo di volta in volta più

efficace per garantire la sussistenza del

genere umano.

Infine, aprendo per legge tutte le forme

di proprietà, inclusa quella comune, al

controllo dei lavoratori e della cittadinanza.

Le imprese pubbliche, private e

cooperative di una certa dimensione

devono essere chiamate ad una stringente

responsabilità sociale, tutte le

forme proprietarie di rilevanza pubblica

5

devono essere soggette alla valutazione

informata da parte di coloro che ne

utilizzano i risultati e che comunque ne

subiscono le conseguenze. Anche la

proprietà comune, si diceva, perché

neanche essa è esente da effetti paradossali,

che possono consistere nella

sottoutilizzazione del bene, nella sua

cattiva gestione, nella degenerazione di

strutture o processi che, essendo “di

tutti”, rischiano di non essere curati da

nessuno.

L’idea dei beni comuni non deve dunque

liquidare, ma integrare e trasformare

l’idea della proprietà pubblica.

Altrimenti diviene inefficace rispetto ai

propri scopi e debole di fronte al problema

politico fondamentale della fase

attuale: quello di ridiscutere la proprietà

delle più importanti imprese finanziarie

ed industriali, condizione essenziale

per l’effettiva esigibilità dei diritti e per

la stessa trasformazione ambientale

dell’economia.

PROPOSTA PER IL DOPOVOTO

di Riccardo Petrella

S'è risvegliato, ha gridato, ha lottato

con grande passione e impegno, il popolo

dei beni comuni. Ci sono voluti

tanti anni, ma ce l'ha fatta. La grande

occasione che ha permesso agli italiani

di risentirsi cittadini degni di tale titolo è

stata data dall'acqua, dalla rivolta contro

la sua mercificazione. L'acqua è diventata

parte integrante dell'agenda

politica italiana da una decina d'anni. In

realtà, la sfida per l'acqua sinonimo di

vita e non merce, l'acqua come bene

comune pubblico su cui fondare la garanzia

del diritto umano alla vita per

tutti, covava nelle nostre società da una

trentina d'anni, da quando è cominciato

lo smantellamento dello Stato sociale,

del benessere, dei diritti.

L'acqua non è stata la sola occasione.

Il rigetto dell'arroganza della potenza

che pretende non solo di essere cieca

ma di avere la legittimità di restarlo anche

di fronte all'evidenza della violenza

intrinseca fatta dal nucleare alla vita, ha

giocato in favore dell'affermazione che

la vita è un bene comune inalienabile,

da proteggere e da promuovere. Last

but not least, il disprezzo dell'uguaglianza

di tutti i cittadini dinanzi alla

legge e lo sfrontato sostegno dato alla

prepotenza dei privilegi del potente

hanno fatto sì che i cittadini italiani abbiano

affermato con convinzione e forza

che l'uguaglianza nei diritti è il bene

comune pubblico fondamentale.

Il potente che si vuole al di sopra delle

leggi è indegno di rappresentare i cittadini,

deve essere bandito, dichiarato un

«fuori legge» e come tale giudicato. Gli

italiani possono rivendicare, di nuovo,

di essere un popolo degno, un popolo

di cittadini.

Gli anni che ci troviamo davanti devono

confermare questa rivoluzione. Dovranno

essere momenti, anche se difficili,

di profonde innovazioni. La prima,

la più immediata, è di natura psicologica

collettiva. Sentire gioia, sentirsi rincuorati,

è assolutamente indispensabile.

Quel che si è concretizzato nelle

ultime settimane merita entusiasmo.

Abbiamo sognato e ora possiamo pensare

che possediamo non solo l'opportunità

ma anche la volontà di realizzare

i nostri sogni.

Diventare costruttori d'utopia nel senso

di lavorare per costruire «un luogo

buono» (eu-topos, un mondo buono,

perché, per esempio, l'acqua è trattata

come bene comune pubblico e tutti devono

avere accesso all'acqua come

diritto) è la seconda innovazione, che ci

sposta sul piano della politica (della

polis), dell'agire politico. Bisogna sperare

che certi gruppi dirigenti non cantino

vittoria.

Ciò non solo sarebbe ingiusto dal punto

di vista della verità storica. Si tratterebbe

di un esproprio puramente predatorio.

Ma condurrebbe anche a far pensare

a milioni di coloro che hanno appoggiato

i referendum e sono diventati parte

del «popolo dei beni comuni» che i

problemi sono risolti e che si tratta solo

di cambiare i dirigenti del centrodestra

con quelli del centrosinistra. Sarebbe

un grave errore, un ennesimo travisamento

(se non tradimento) della volontà

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dei cittadini ad opera dei dominanti.

Non possiamo limitarci a congegnare

delle nuove alleanze fra gli stessi. Diventare

costruttori di un mondo buono

in Italia comporta una modifica radicale

dell'ingegneria istituzionale sui beni

comuni e del modo di fare politica da

parte dei cittadini. Certo, si deve sapere

quali forze sociali, politiche, sono disponibili,

in che misura e a quali condizioni

sono pronte ad associarsi al fine

di permettere di realizzare gli obiettivi

sognati. Ma ricittadinare la città, reinventare

la res publica, non può consistere

in un rimescolio degli ingredienti

della stessa maionese.

A tal fine, terza innovazione, per far

ripartire la costruzione di una società

dei cittadini occorrerà trovare le modalità

per consentire loro di partecipare

direttamente alla costruzione della società

italiana dei prossimi anni. Questo

è possibile, non si tratta di una fantasia.

Gli Stati generali del governo dei beni

comuni dovrebbero essere il primo e

rapido atto costituente del «popolo dei

beni comuni». Concretamente questo

significa che la presidenza della Repubblica,

preso atto della volontà di

cambiamento espressa dai cittadini italiani

nel senso di un'applicazione più

rigorosa e ricca dei dettami della Costituzione

italiana, e valorizzando anche

lo spirito innovatore soggiacente alle

celebrazioni del 150° anniversario dalla

fondazione dello Stato italiano, potrebbe

convocare entro la fine dell'anno gli

Stati generali, con il compito di definire

e adottare la Carta costituente dei beni

comuni. Se la presidenza della Repubblica

non fosse disposta a farlo, il «popolo

dei beni comuni» dovrebbe procedere

di propria iniziativa, come ha dimostrato

di saper fare in questi ultimi

anni. Le idee, le analisi, le proposte, le

soluzioni, le esperienze concrete non

mancano, che si tratti della giustizia

sociale, della solidarietà, dell'energia,

dell'acqua, del lavoro, dell'educazione,

delle città, del rispetto degli altri. Si tratterà

di non lasciarle segmentate, frazionate,

escludenti. In una società realmente

democratica, partecipata, i lavori

degli Stati generali dei beni comuni

sarebbero presentati e discussi in una

sessione speciale con il parlamento

italiano e seguiti, obbligatoriamente,

dalla composizione di un nuovo governo.

A momenti di grande fermento innovatore

nella società occorre rispondere

con grandi momenti di innovazione

culturale politica e istituzionale.

UN VOTO COSTITUENTE

di Ugo Mattei

Si vota! Sembra incredibile ma siamo

riusciti a far esprimere il popolo sovrano

su questioni fondamentali per il nostro

futuro, senza la mediazione dei

partiti e delle burocrazie politiche. Siamo

riusciti ad aprire un dibattito serio

nel paese e a proporre politicamente

strumenti di azione ed un linguaggio

nuovo, quello dei beni comuni, che esce

dalle stanze degli addetti ai lavori.

Non è un traguardo da poco, né era

scontato che saremmo riusciti a raggiungerlo.

Un voto popolare per invertire

la rotta rispetto ad un modello di sviluppo

fondato sull'ideologia della privatizzazione

e su un rapporto fra l'interesse

pubblico e quello privato sempre più

spostato a favore di quest'ultimo, non

poteva che dar fastidio a molti. E i suoi

esiti possono essere politicamente dirompenti,

forse perfino costituenti di

una fase nuova finalmente capace di

superare in Italia il blocco del pensiero

unico che paralizza ogni possibilità di

uscita dalla crisi. Comunque, siamo

riusciti a fermare il folle banchetto nucleare

che pareva già imbandito quando,

poco più di un anno fa, si siglavano

gli accordi italo-francesi fra Edison ed

Edf. Questo pactum sceleris poteva

esser presentato, senza pudore, come

un passo verso la modernizzazione sulle

pagine dei giornali.

Adesso la Confindustria, che già aveva

l'acquolina in bocca per i ricchi trasferimenti

dal settore pubblico a quello

privato, si agita vieppiù nervosamente

perché rischia di veder sfumare anche

il business dell'acqua, dei trasporti e

della spazzatura. Infatti, se dovessimo

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vincere il referendum, organizzeremmo

la gestione dell'acqua in modo coerente

con la sua natura di bene comune: ne

affideremmo la gestione ad un settore

pubblico ristrutturato e democratico seguendo

una logica ecologica e di lungo

periodo. Troveremmo gli investimenti

per un grande di intervento pubblico sul

territorio, per ristrutturare le infrastrutture

e prevenirne il degrado. Creeremmo

così posti di lavoro garantiti come quelli

che, sembra un secolo fa, avevano i

cantonieri prima che Anas si trasformasse

in un una agenzia di gestione di

gare d'appalto.

Perché il privato dovrebbe investire sul

lungo periodo? Perché le gare dovrebbero

essere trasparenti e meritocratiche?

Perché non dovrebbero esserci

soldi pubblici per una riconversione ecologica

del nostro modello di sviluppo

mentre ci sono (200 milioni al mese)

per massacrare civili in Libia e Afghanistan,

in brutale violazione della Costituzione?

Porre queste domande non è stato facile.

Il governo ha iniziato inserendo addirittura

nel preambolo del decreto

Ronchi la grande menzogna per cui la

dismissione a favore del privato del

servizio idrico e degli altri servizi di interesse

economico generale (trasporti e

spazzatura) sarebbe stato obbligatoria

sul piano europeo e quindi non sottoponibile

a referendum. Questo argomento

è stato il mantra ripetuto dai nostri

oppositori (bipartisan) mentre noi

raccoglievamo milioni di firme e iniziavamo

un grande processo dal basso di

alfabetizzazione idrica, ecologica ed

istituzionale che, già da solo, ha reso

l'Italia un luogo migliore. Poi la Corte

Costituzionale ha accolto per due terzi

il nostro impianto referendario, sbugiardando

sul punto il governo, mettendo in

chiaro i limiti culturali dell'impostazione

dell'Avvocatura dello Stato, e riconoscendo

l'importanza anche giuridica

della nozione di beni comuni (poco dopo

la nozione è stata elaborata anche

dalle Sezioni Unite della Cassazione).

Da quel momento il governo avrebbe

dovuto divenire "amministrazione", rispettando

la Costituzione. Lungi dal

farlo, il governo ha innanzitutto dilapidato

350 milioni (di quel denaro pubblico

impossibile da trovare per riparare

gli acquedotti) rifiutando l' "election

day". Abbiamo puntualmente presentato

ricorso contro questa autentica vergogna,

ma né il Tar Lazio né la Corte

Costituzionale hanno avuto il coraggio

di opporvisi. Dal 4 aprile poi è scattata

la par condicio, che ha reso tabù la discussione

sui beni comuni mentre, nel

frattempo, la maggioranza faceva melina

in Commissione di Vigilanza per impedire

che si emanassero i decreti necessari

per assegnare gli spazi ai promotori.

Quando la terribile tragedia di Fukushima

rende impossibile non parlare di

questione nucleare, il governo, come

un bambino beccato dalla mamma con

le mani nella marmellata, mette a segno

l'autogol per far saltare i referendum.

Con l'approssimazione giuridica

che contraddistingue una maggioranza

che a furia di disprezzare la legge non

sa più utilizzarla, il decreto omnibus,

cerca di cancellare il voto sul nucleare.

Se per qualche settimana la confusione

prodotta nell'opinione pubblica è stata

totale, il tentativo di scippo goffo e maldestro

dell' ultimo minuto ha scatenato

nel corpo elettorale gli anticorpi dell'

indignazione. La nostra energia si è

moltiplicata, nuovi appoggi, fino a quel

momento impensati, sono arrivati alla

nostra compagine. Mentre il legame

culturale fra il nucleare e l'acqua, declinato

nella riflessione sui beni comuni

faceva crescere lo spessore politico

delle nostre analisi ed il significato del

referendum, il mondo cattolico, mobilitato

da quel grande campione di visione

politica di lungo periodo che è Alex

Zanotelli scendeva apertamente in

campo.

In questo scenario sociale i referendum,

con la rete di diverse decine di

migliaia di attivisti per gran parte estranei

ai partiti, paiono proprio il corrispondente

italiano delle primavere arabe

e degli indignados spagnoli. Fra poche

ore sapremo se il nostro disegno di

conferire forza politica costituente a un

grande ripensamento dei rapporti fra

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pubblico e privato attraverso lo strumento

dei quesiti referendari abrogativi

sui beni comuni, sarà condiviso dalla

maggioranza del popolo italiano. In caso

affermativo, l'avidità per l'oro blu avrà

sciacquato via, almeno in Italia, la

fine della storia ed il pensiero unico.

UNA VITTORIA CHE VIENE DA

LONTANO

di Stefano Rodotà

Tutto è cominciato poco più di un anno

fa, quando la raccolta delle sottoscrizioni

per i referendum sull´acqua come

bene comune s´impennò fino a raggiungere

il picco di un milione e quattrocentomila

firme, record nella storia

referendaria. Pochi si accorsero di quel

che stava accadendo. Molti liquidarono

quel fatto come una bizzarria di qualche

professore e di uno di quei gruppi

di "agitatori" che periodicamente compaiono

sulla scena pubblica. O lo considerarono

come un inciampo, un fastidio

di cui bisognava liberarsi. Basta dare

un´occhiata ai giornali di quei mesi.

E invece stava succedendo qualcosa di

nuovo. Il travolgente successo nella

raccolta delle firme era certamente il

frutto di un lavoro da tempo cominciato

da alcuni gruppi. In quel momento, però,

incontrava una società che cambiava

nel profondo, dove l´antipolitica cominciava

a rovesciarsi in una rinnovata

attenzione per la politica, per un´altra

politica. Ai referendum sull´acqua si

affiancarono quelli sul nucleare e sul

legittimo impedimento. Nasceva così

un´altra agenda politica, alla quale, di

nuovo, non veniva riservata

l´attenzione necessaria.

Mentre i referendari lavoravano per

blindare giuridicamente i quesiti e farli

dichiarare ammissibili dalla Corte costituzionale,

le dinamiche sociali trovavano

le loro strade, anzi le loro piazze. Sì,

le piazze, perché tra l´autunno e

l´inverno questi sono stati i luoghi dove

i cittadini hanno ritrovato la loro voce e

la loro presenza collettiva. Le donne, le

ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori,

il mondo della scuola e della cultura

hanno creato una lunga catena che univa

luoghi diversi, che si distendeva

nel tempo, che faceva crescere consenso

sociale intorno a temi veri, nei

quali si riconosceva un numero sempre

maggiore di persone - il lavoro, la conoscenza,

i beni comuni, i diritti fondamentali,

la dignità di tutti, il rifiuto del

mondo ridotto a merce.

Le piazze italiane prima di quelle che

simboleggiano il cambiamento nel nord

dell´Africa? Le reti sociali, Facebook e

Twitter come motori delle mobilitazioni

anche in Italia? Proprio questo è avvenuto,

segno evidente di un rinnovamento

dei modi della politica che non può

essere inteso con le categorie tradizionali,

che sfida le oligarchie, che rende

inservibile la discussione da talk show

televisivo. Forse è frettoloso parlare di

un nuovo soggetto politico per una realtà

frastagliata e mobile. Ma siamo sicuramente

al di là di quei "ceti medi riflessivi"

che segnarono un´altra stagione

della società civile. Di fronte a noi sta

un movimento che si dirama in tutta la

società, prensile, capace di costruire

una agenda politica e di imporla

Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni

rimanevano tenaci. Patetici

ci appaiono oggi i virtuosi appelli

contro il "movimentismo", provenienti

anche da persone e ambienti

dell´opposizione, che oggi dovrebbe

riflettere seriamente sulla realtà rivelata

dalle elezioni amministrative e dai referendum

invece di insistere nella ricerca

di categorie astratte - il centro, i moderati.

E se la maggioranza vuol cercare

le radici della sua sconfitta, deve cercarle

proprio nell´incapacità totale

d´intendere il cambiamento, con un

Presidente del consiglio che ci parlava

di piazze piene di fannulloni, una ministra

dell´Istruzione che non ha incontrato

neppure uno studente, una maggioranza

che pensava di domare il nuovo

con la prepotente disinformazione del

sistema televisivo.

Guardiamo alle novità, allora, e alle

prospettive e ai problemi che abbiamo

di fronte. Il voto di domenica e lunedì

ha restituito agli italiani un istituto fondamentale

della democrazia - il refe9

rendum, appunto. Ma ci dice anche che

bisogna eliminare due anomalie che

continuano a inquinarne il funzionamento.

È indispensabile riscrivere la

demagogica legge sul voto degli italiani

all´estero, fonte di distorsioni, se non di

vere e proprie manipolazione. È indispensabile

ridurre almeno il quorum per

la validità dei referendum. Pensato come

strumento per evitare che

l´abrogazione delle leggi finisse nelle

mani di minoranze non rappresentative,

il quorum ha finito con il divenire il

mezzo attraverso il quale si cerca di

utilizzare l´astensione per negare il diritto

dei cittadini di agire come "legislatore

negativo". Si svilisce così anche la

virtù del referendum come promotore di

discussione democratica su grandi

questioni di interesse comune.

Ma il punto cruciale è rappresentato dal

fatto che ai cittadini è stato chiesto di

esprimersi su temi veri, che liberano la

politica dallo sguardo corto, dal brevissimo

periodo, e la obbligano finalmente

a fare i conti con il futuro, con una idea

di società, con il rinnovamento delle

stesse categorie culturali. Un´altra agenda

politica, dunque, che dà evidenza

all´importanza dei principi, al rapporto

nuovo e diverso tra le persone e il

mondo che le circonda, all´uso dei beni

necessari a garantire i diritti fondamentali

di ognuno. La regressione culturale

sembra arrestata, il risultati delle amministrative

e dei referendum ci dicono

che un´altra cultura politica è possibile.

Il voto sul nucleare non ipoteca negativamente

il futuro dell´Italia. Al contrario,

impone finalmente una seria discussione

sul piano energetico, fino a ieri elusa

proprio attraverso la cortina fumogena

del ritorno alla costruzione di centrali

nucleari. Il voto sul legittimo impedimento

ci parla di legalità e di eguaglianza,

esattamente il contrario della

pratica politica di questi anni, fondata

sul privilegio e il rifiuto delle regole. Il

voto sull´acqua porta anche in Italia un

tema che percorre l´intero mondo, quello

dei beni comuni, e così parla di

un´altra idea di "pubblico". Proprio intorno

a quest´ultimo referendum si è

registrato il massimo di disinformazione

e di malafede. Si è ignorato quel che da

decenni la cultura giuridica e quella economica

mettono in evidenza, e cioè

che la qualificazione di un bene come

pubblico o privato non dipende

dall´etichetta che gli viene appiccicata,

ma da chi esercita il vero potere di gestione.

Si sono imbrogliate le carte per

quanto riguarda la gestione economica

del bene, identificandola con il profitto.

Si sono ignorate le dinamiche del controllo

diffuso, garanzia contro pratiche

clientelari, che possono essere sventate

proprio dalla presenza dei nuovi

soggetti collettivi emersi in questa fase.

Quell´agenda politica deve ora essere

attuata ed integrata. È tempo di mettere

mano ad una radicale riforma dei beni

pubblici, per la quale già esistono in

Parlamento proposte di legge. E bisogna

guardare ad altre piazze. Quelle

che affrontano il tema del lavoro partendo

dal reddito universale di base.

Quelle che ricordano che le persone

omosessuale attendono almeno il riconoscimento

delle loro unioni: un diritto

fondamentale affermato nel 2009 dalla

Corte costituzionale e che un Parlamento

distratto e inadempiente non ha

ancora tradotto in legge, com´è suo

dovere.

La fuga dai referendum non è riuscita.

Guai se, dopo un risultato così straordinario,

qualcuno pensasse ad una fuga

dai compiti e dalle responsabilità

che milioni di elettori hanno indicato

con assoluta chiarezza.

L'ACQUA FERMA L'ONDA LIBERISTA.

di Emilio Molinari

Il referendum sul nucleare ha tirato la volata,

ma quello sull'acqua ci ha messo

l'anima profonda del cambiamento. Ha

interrotto una lunga fase, non solo quella

di Berlusconi, ma quella del liberismo

senza limiti di Regan, del ritiro della politica

da ogni idea pubblica che ha contaminato

tutti.

Viene da lontano, è figlia dei Forum Sociali

Mondiali e di un lungo lavoro cultura10

le di 11 anni e di lotte, che hanno scavato

nelle coscienze dei cittadini, di dialogo

con la chiesa e di confronto-scontro coi

partiti.

Le privatizzazioni caratterizzeranno il dopo

referendum e il dopo Berlusconi. Ma

non si potrà ignorare che i cittadini hanno

detto: che il servizio idrico va gestito pubblicamente

e che vogliono partecipare

alla definizione delle scelte che si faranno,

sapendo che si scontreranno con destra

e sinistra, ma sopratutto con Confindustria,

Federutilty, multinazionali che

hanno ripetutamente detto che le privatizzazioni

devono stare al centro dell'iniziativa

di qualsiasi governo.

C'è in giro il timore di un nuovo “fantasma

che si aggira per il mondo”...Ed è il fantasma

della partecipazione che si fa soggetto

organizzato in reti nazionali ed internazionali,

capace di darsi obbiettivi a

tutti i livelli: dal fermare la mercificazione

dell'acqua potabile, all'affermazione del

diritto umano nelle istituzioni internazionali.

Che ha rivitalizzato come in Uruguay

e Berlino il referendum strumento della

sovranità popolare. Ha introdotto il linguaggio

dei beni comuni di cui oggi tutti

parlano. Che non divide i popoli, non demonizza

i partiti per trovare un proprio

consenso, ma cerca consenso tra la gente

per cambiare la cultura dei partiti e portarli

a battersi con noi come è avvenuto in

parte nei referendum.

Non ha chiesto: stai con Berlusconi o

contro? Ha detto a tutti: guardate al mondo

e ai suoi terribili problemi, sono anche

nostri. Ban Ky-Moon nel 2008 ebbe a dire

che siamo di fronte a una grande crisi

idrica mondiale ed a una grande crisi energetica

che si alimentano e provocano

altre crisi, compresa quella alimentare.

Volevamo parlare di questo. Chiedere:

perché l'accesso ai beni comuni indispensabili

alla vita e che scarseggiano,

deve essere regolato dal mercato?

Esiste ancora un interesse pubblico e una

fiscalità generale? L'acqua potabile è un

bene comune oppure per il fatto che occorrono

interventi industriali, la sua natura

diventa economica, il suo accesso diventa

individuale, regolato dal mercato?

L'acqua è un diritto umano o è solo un

bisogno individuale che si compera come

sostengono le multinazionali e i Forum

Mondiali dell'acqua partecipati da 160

governi?

Noi non abbiamo parlato di gratuità. Avremmo

voluto spiegare che vogliamo

garantire il diritto a tutti, a carico della fiscalità,

50 litri al giorno per persona come

sostiene l'OMS e dopo tale consumo una

tariffa progressiva sempre più cara per

garantire il risparmio.

Per paura ci hanno resi muti. Ha parlato

la politica, che trasversalmente volle le

privatizzazioni, e rancorosi economisti

senza anima che hanno ridotto tutto ad

una questione di fredda contabilità.

Il soggetto della partecipazione esiste.

Ora i partiti non sono i soli soggetti della

politica, ma anche i movimenti. Un protagonista

in più, che vuole incontrare con

pari dignità i partiti e le istituzioni, riproporre

la propria legge di iniziativa popolare

che il governo non volle discutere e

aprire il grande tema della costituzionalizzazione

dei beni comuni.

I referendum sull'acqua ci segnala un

cambiamento epocale il cui motore è stata

l'acqua. Prendetene atto e non parlate

sempre da contabili.

_________________________________

COSTRUIAMO UN MOVIMENTO PER LA

DIFESA DEI BEI COMUNI

FERMIAMO GLI AVVOLTOI

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