Buoni e cattivi: cosa rimane del 15 ottobre
da www.fiorinoiantorno.it
Parole vecchie
Sono diversi giorni ormai che leggo e rileggo queste parole. Cancello frasi, cambio parole, modifico verbi. E’ difficile scrivere di quello che è successo il 15 ottobre a Roma. Faccenda complessa che non ha solo un punto di vista. Personalemente non sopporto chi mi costringe a fare qualcosa. Non sopporto chi mi costringe a essere diverso rispetto a quello che vorrei essere. Non sopporto chi mi costringe a vivere in una società ingiusta. Non sopporto chi interrompe, interferisce, crasha i percorsi collettivi. Non lo sopporto e mi ribello a qualsiasi imposizione a qualsiasi violenza diretta, indiretta, fisica, economica, sociale che mi vuole, appunto, imporre qualcosa. E non sopporto i guru neoliberisti che mi dettano uno stile di vita – diciamo che mi fanno sopravvivere – e allo stesso modo trovo insopportabile chi mi impone una modalità a una manifetazione, come appunto è successo a Roma. Non si tratta delle autovetture incendiate, delle vetrine rotte, parlo di quella prepotenza che vuole imporre un modo di essere ai più, che per forza di cose, sono costretti a subire. Come subisce, allo stesso modo, gli effetti delle scelte dei neoliberisti. Violenza contro non violenza, autonomi, disagio sociale, blocco nero, centri sociali buoni, centri sociali cattivi, radicali, meno radicali: ecco di nuovo riaffacciarsi dopo Roma il lessico consueto che sentiamo sempre quando i movimenti, più o meno maturi, emergono di nuovo per le strade delle città. Non mi appassiona la riapertura del dibattito su violenza o non violenza e non credo che gli eventi del 15 ottobre ci devono far cadere in questa discussione che oramai è solo liturgica. E non credo che si tratti di un movimento dove possiamo applicare le categorie del passato rispolverando e costreundo parallelismi, come ha fatto Francesco Caruso, con eventi storici legati alle lotte ed alla rabbia operaia. Siamo in un altro mondo, non purtroppo l’altro mondo possibile che avevamo sognato. Non sono un pacifista e non sono un violento a prescindere: sappiamo tutti che in determinati momenti storici, il conflitto si agisce anche per vie che sono necessariamente lontane da pratiche pacifiche e non violente. Molte volte ti ci costringono gli eventi. Il punto è come si arriva a scegliere una determinata modalità di azione, un determinato modo di essere, quali pratiche mettere in campo. In questo il neomovimento di Roma ha mostrato e sta mostrando tutti i suoi limiti: limiti organizzativi, limiti politici, limiti innati e propri di un movimento liquido come è la società stessa in cui agisce. Provo a spiegarmi meglio.
C'era una volta Genova...
Per arrivare a Genova 2001, al grande movimento No global come mediaticamente venivamo chiamati, ci fu una intensa attività di confronto, di incontro, di elaboraizone politica. C’erano associazioni, partiti, sindacati che si sono linkati l’uno con l’altro, si sono interconnessi. Non sono stati confronti semplici. Sono stati dibatti complessi e lunghi che hanno dato vita ad una elaborazione politica fatta di più pezzi e dove nessuno ha imposto il proprio modo di essere, le proprie ragioni. I diversi movimenti, le diverse realtà si sono mischiate e da queste interconessioni sono uscite diverse, cambiate. Quando siamo arrivati a Genova nessuno era più quello che era prima di iniziare quel viaggio. Lentamente ma, inesorabilmente, tutti siamo cambiati. Ed abbiamo scelto modalità di essere, di manifestare, di discutere comuni, condivise. Non è un caso che furono chiamati a disturbarci a crashare il sistema, sabotare quella rete gli uomini del disordine di stato e i "neri" professionisti della violenza e del disordine. Fummo costretti a difenderci: non eravamo preparati, avevamo scelto di non esserlo, perché non volevamo accettare la logica militare che ci volevano imporre e che di li a poco sarebbe diventata la guerra globale permanente che ci avrebbe ingoiato tutti. Le modalità, il modo di essere del pre Genova e del dopo Genova è fatto di scelte, di movimenti che si sono connessi fra loro. Ma era un movimento che aveva dei punti di densità, dei nodi di coagulo che erano le associazioni, i sindacati, i partiti, i centri sociali le organizzazioni giovanili che ancora erano per molti, un punto di riferimento. Tutto questo ora non c’è. Meglio: la capacità di attrazione di alcuni dei soggetti che avevano costruito Genova è fortementene ridimensionata perché il neoliberismo e la sua crisi, ha travolto tutti e il carattere delle diverse manifestazioni in giro per il mondo mi sembra disegni un movimento molto meno comunitarista e fatto più di individui e di individualismo. Sintomo di questo – sintomo positivo – sono gli accampamenti, dove si cerca di riscoprire la voglia di essere comunità, di stare insieme, dopo che il neoliberismo ci ha distrutto e reso monadi. Ma non è semplice e non si fa in un giorno. Siamo in uno scenario di movimento liquido. Più difficile da interpretare, più complicato costruire modalità di azioni comuni. E anche la passata esperienza del 2001 e le pratiche che abbiamo usato in quella fase sono difficilmente applicabili. Sono di fatto, già vecchie. E questo si è visto nella manifestazione del 15 ottobre dove forse, in piazza San Giovanni ci sarebbe stato un tentativo di connessione che non sappiamo come sarebbe terminato, fra i diversi attori – molti appunto individui – che non si riconoscono nei partiti della sinistra extraparlamentare che sono schiacciati tra l’istituzionalismo a prescindere di Sel e il comunismo adolescenziale di quel che rimane di Rifondazione Comunista. Che non riconosce i sindacati siano essi di base o no, che non si ritrova in certi centri sociali, nelle organizzazioni e che ha più simpatia per le questioni specifiche e vuole essere etichettato perché è indignato e questa indignazione la manifesta contro tutti e tutte senza se e senza ma. E che non tollera chi vuole imporre una modalità di azione violenta. Dal dopo Genova mi sembra la prima volta, almeno per la mia generazione, che si è assistito in modo palese a scontri interni tra i manifestanti. Ed è un fenomeno tutto nuovo e pericoloso quello che è nato all’indomani del 15 ottobre dove sui social network molti dei partecipanti alla manifestazione hanno e stanno riversando video, foto, frame di “incappucciati” presi da vicino nel momento in cui si tolgono il passamontagna o nel momento in cui agiscono. Una modalità simile era stata usata per identificare e denunciare le violenze gratuite delle forze dell’ordine da Genova in poi. Come mai ora invece, questa modalità trova la partecipazione di chi è stato a quella manifestazione? Cosa succede?
Le solite parole
Forse tutto ciò è sintomo del fatto che molti di coloro che si sono ritrovati a manifestare il 15 ottobre a Roma non si riconoscono con un certo linguaggio politico e non riconoscono nemmeno le pratiche – discutibili – di questi pochi che, senza fare liste di buoni e cattivi come hanno fatto alcuni, sicuramente fanno parte della zone border line del movimento e delle lotte sociali di questo paese. Ma appunto come border line questa volta hanno imposto una modalità al di fuori di qualsiasi discussione collettiva. E questo non è piaciuto ai più. Ma non è con la denuncia o con il regolamento di conti interno attraverso la militarizzazione dei cortei che risolveremo la questione che è antropologica e più complessa. Come non è con lo scontro fisico e la violenza che riusciremo a sconfiggere il neoliberismo. Sono entrambe modalità esasperate ed esasperanti o come dice Bifo “psicopatiche”. Tra l’altro è difficile capire chi c’era sotto i cappucci, le maschere antigas o i caschi: mi sembra ad occhio e croce che partiti in trecento, a fare gli scontri siano stati più di duemila persone. E sono convinto che se si fosse arrivati davanti al Palazzo, dove durante molte notti il primo Ministro si intrattiene con escort, nani e ballerine pagati per una sera quanto quello che guadagna un giovane precario in un anno, forse ci sarebbe stata una modalità rabbiosa ben più ampia e contagiosa. Ma non sono convinto come ha sostenuto Raparelli in una trasmissione televisiva, che se il Governo Berlusconi si fosse dimesso il 15 non ci sarebbero stati scontri. E’ una lettura politica e politicista che vede il nemico in Berlusconi. Il disagio, il malessere è molto più ampio e Berlusconi è solo un attore – molto protagonista non c’è dubbio – ma solo un attore. L' Italia dovrà fare i conti con il berlusconismo che sarà molto più resistente del pupazzo che lo interpreta. Costruire punti di connessione, luoghi dove potersi incontrare per parlare, raccontarsi, analizzare le proprie storie individuali e collettive e forse l’unico modo per cercare di provare a costruire nuove forme condivise di azione. Forme di azione che devono essere per forza di cose, innovative perché tutto quello che abbiamo messo in campo fino ad ora e fino ad oggi è vecchio, non funziona più. Non funzionano i cortei, non funzionano gli scontri, non funzionano i palloncini colorati. Ne tanto meno funzioneranno i servizi d’ordine. Dividersi fra buoni e cattivi aiuterà solamente i neoliberisti a rafforzarsi e a frammentare, fino a distruggere un movimento globale “insurgente” che temono. L'unico modo per trovare una soluzione è quella dello stare insieme per una volta senza giocare a dividerci e allargando il cerchio. Non bisogna buttare quetso movimento, questo malessere nelle logiche dei movimentisti di professione. Apriamo le finestre, apriamoci e facciamo entrare la forza di chi ha di nuovo voglia di partecipare. Non spaventiamoli con le nostre discussioni - già viste e sentite - e le nostre consuete modalità siano esse violente o, apparentemente, non violente.
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