Abolizione delle Province e distruzione della democrazia
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In nome della diminuzione della spesa pubblica, segnatamente dei cosiddetti costi della politica, il governo Berlusconi aveva diminuito di un quinto il numero dei consiglieri comunali e provinciali(decreto legge 25 gennaio 2010, n. 2), operando in seguito un’ulteriore diminuzione per i comuni fino a diecimila abitanti e dimezzando il numero dei componenti dei consigli provinciali (decreto legge 13 agosto 2011, n. 138).
Il governo Monti ha però saputo fare di meglio!
Il governo Monti ha però saputo fare di meglio!
Con il decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 (il cosiddetto decreto salva Italia), poi con il decreto legge 6 luglio 2012, n. 95 (il cosiddetto spending review), le amministrazioni provinciali, che rimarranno in funzione dopo gli accorpamenti che saranno effettuati, non saranno più formate sulla base del voto di tutti i cittadini, ma nominate dalla classe politica locale, ossia dai sindaci e dai consiglieri dei comuni ricadenti sul territorio di una determinata provincia.
In concreto, in nome della riduzione dei costi della politica, si affida alla politica stessa la rappresentanza di se stessa, intervenendo surrettiziamente e in maniera pesante in un ambito, quello del diritto di voto, di evidente grandissima rilevanza costituzionale e politica, nonché fondamento indispensabile di ogni democrazia.
Va osservato inoltre che il decreto legge 95/2012 anticipa, per quanto riguarda le città metropolitane, le norme per l’elezione dei consigli provinciali contenute nel progetto di legge dei ministri Cancellieri e Severino, introducendo un ulteriore elemento di turbativa democratica limitando l’eleggibilità ai soli sindaci, con una evidente e stridente contraddizione fra l’esercizio di funzioni diverse e non sempre conciliabili.
I provvedimenti in materia di elezione degli organi provinciali presi dal governo Monti costituiscono un pericoloso precedente che può ripetersi per altri enti ed in altre occasioni, e che trova il suo pericoloso e poco onorevole antefatto nella soppressione dell’elettività degli organi comunali e provinciali decisa nel 1926 dal governo fascista.
Inoltre va osservato che tutto è stato affrontato, non come materia relativa all’esercizio di un diritto democratico, ma come problema di spesa pubblica, così da eludere con cura, non solo un reale confronto democratico, ma anche il semplice coinvolgimento delle parti interessate (le province), che pure avevano formulato le loro proposte per una razionalizzazione degli assetti delle autonomie locali, manifestando disponibilità alla riduzione del numero degli enti.
Oltretutto colpire le province, al di là del giudizio che si può dare sul loro concreto operato, significa davvero colpire l’anello più debole (in tutti i sensi) dell’articolazione istituzionale della Repubblica; la spesa complessiva delle province è appena l’1,35% della spesa complessiva dello Stato, delle regioni e degli enti territoriali, la spesa per la politica delle province è appena lo 0,9% della spesa totale delle stesse e “pesa” per il solo 5,8% sulla spesa complessiva per il funzionamento delle assemblee elettive (Camera dei Deputati, Senato della Repubblica, consigli regionali, provinciali e comunali).
La verità è che questo governo mentre, con la nuova normativa per l’elezione degli organi delle province e delle città metropolitane, concede al ceto politico la facoltà di riprodurre se stesso, “strizza” l’occhio all’antipolitica, che è poi semplicemente aspirante ceto politico, in nome di una presunta “innocenza” dei tecnici.
In questa situazione, la discussione sugli assetti della futura città metropolitana è profondamente viziata da una lesione al principio stesso di democrazia rappresentativa, che se non viene sanato, ripristinando la condizione essenziale per l’esercizio della democrazia: l’elettività delle cariche basata sul suffragio universale, rende del tutto ininfluente il confronto politico sugli assetti della città metropolitana e ne mina fin dall’inizio la capacità di intervenire sui problemi reali (lavoro, ambiente, territorio, mobilità) sulla base delle reali esigenze dei cittadini, anziché su quelle degli interessi privati e/o corporativi.
Per noi diritti politici e diritti economico – sociali sono inscindibili, così come sta scritto nella nostra costituzione, che gli uni e gli altri si sorreggono a vicenda, che venendo meno gli uni vengono meno anche gli altri.
Questo è il motivo principale della nostra opposizione al governo Monti, che con i provvedimenti in materia economico sociale (attacco al welfare, pensioni, mercato del lavoro) e con la cancellazione della rappresentanza dei cittadini, per trasferirla – ripetiamo – al ceto politico, tende a distruggere gli uni e gli altri.
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