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martedì 18 ottobre 2011
I demolitori del 15 ottobre e il futuro del movimento.
I demolitori del 15 ottobre e il futuro del movimento.
Intervista a Emiliano Brancaccio di Emilio Carnevali
Dalle piazze di Madrid, dove tutto è cominciato lo scorso 15 maggio,
la protesta si è estesa nel resto del mondo. Sabato 15 ottobre gli
“indignati” hanno sfilato per le strade di 950 città – da Honk Kong a
Boston, da San Paolo a Kuala Lumpur, da Sidney a Tokyo – denunciando i
drammatici effetti sociali della crisi economica scoppiata nel
2007/2008 e l'assenza di risposte all'altezza della gravità della
situazione da parte della politica e dei governi. Non è un caso se le
file di “indignados” sono composte sopratutto da giovani, i più
colpiti dalla disoccupazione di massa legata alla brusca contrazione
di produzione e reddito che si è registrata quando la crisi
finanziaria si è scaricata sull'economia reale.
A Roma una grande manifestazione cui hanno preso parte oltre centomila
persone è degenerata in violentissimi scontri. Il bilancio provvisorio
è di 70 feriti (tre gravi), 12 arrestati, una città messa a ferro e
fuoco per diverse ore e il solito, inevitabile, strascico di
polemiche. Ancora una volta queste discussioni hanno oscurato le
ragioni di una protesta che, come ha scritto Guido Rossi sul Sole 24
Ore, “nasce da mille, troppi disagi e merita di essere esplorata con
spirito analitico”. Ne abbiamo parlato con Emiliano Brancaccio,
economista dell'Università del Sannio assai critico con quelle
politiche di austerità varate dai governi europei che, insieme alla
Bce e al mondo della finanza, erano il bersaglio privilegiato degli
slogan dei cortei di sabato. Brancaccio segue da anni le vicende dei
movimenti e nel 2002 è stato relatore della proposta di legge di
iniziativa popolare promossa da Attac per l’istituzione della Tobin
tax.
Partiamo dalla giornata di sabato. Che idea si è fatto di ciò che è
accaduto a Roma?
In tutta franchezza non intendo accodarmi alla consueta discussione
etico-normativa su “violenza” e “non violenza”. Se ne sono fatte
tante, in passato, e mi pare che non abbiano mai inciso sul corso
effettivo degli eventi. Preferisco analizzare le dinamiche del
processo storico, di cui gli scontri di Roma, così come quelli di
Atene, indubbiamente fanno parte, che ci piaccia o meno.
Rilevo nei “demolitori” di piazza san Giovanni una qualità
superficiale e un limite di fondo. La qualità sta nella rapidità.
L’onda di una rivolta distruttiva cresce in Europa ogni giorno, con
accelerazioni improvvise. E’ interessante notare che, sul piano
strettamente visivo, questi “riots”, queste azioni rivoltose, sembrano
le uniche in grado di colpire alla stessa velocità dei famigerati
mercati finanziari. In termini puramente simbolici, le fulminee azioni
della guerriglia urbana danno cioè l’illusione di essere le uniche
capaci di tener testa al ritmo forsennato della speculazione
finanziaria, che abbatte i prezzi dei titoli, aumenta i tassi
d’interesse e offre un alibi ai governi che colpiscono il welfare e il
lavoro. Potremmo dire, insomma, che a un primo sguardo i “demolitori”
sembrano i soli in grado di “colpire veloci” come gli speculatori.
Ma anche prescindendo da considerazioni di carattere – come lei le ha
definite - “etico-normativo”, non pare che queste azioni abbiano
alcuna efficacia politica al di là dello sfogo di un pomeriggio...
Infatti la qualità cui ho fatto cenno è apparente, del tutto
illusoria, puramente coreografica. Tuttavia, bisogna anche riconoscere
che essa risalta di fronte all’affanno dei tradizionali movimenti di
massa e ancor più delle istituzioni politiche. Quando i “demolitori”
dichiarano: «volevano farsi il solito, inutile comizio e invece hanno
avuto una bella sorpresa», è chiaro che intendono sfidare una politica
tradizionale che arranca paurosamente, che giunge sempre in ritardo
sui luoghi in cui si consumano i delitti politici del nostro tempo. E’
questo spaventoso ritardo che spiega le simpatie, più o meno nascoste,
che un numero non trascurabile di persone, e di lavoratori, esprime
oggi nei confronti dei “demolitori” di piazza San Giovanni.
E quale sarebbe invece il limite dei “demolitori”?
Un limite gigantesco. Essi sono palesemente incapaci di cogliere il
senso profondo delle dinamiche in corso, e sono per questo totalmente
privi di una piattaforma politica. Nella migliore delle ipotesi, senza
esserne nemmeno consapevoli, i “demolitori” attingono da un miscuglio
di vecchie parole d’ordine del più ingenuo proudhonismo e da
un’apologia dell’azione in sé che ha molti padri spirituali, ad
esempio nel dadaismo ma anche nel primissimo fascismo. Definirli
anarchici è già alquanto lusinghiero. Il problema è che i verdetti
della Storia su questo tipo di movimenti sono inequivocabili. Le forme
ingenue di ribellione possono condurre alla distruzione di macchine e
di simboli, religiosi e non, possono mandare all’ospedale qualche
malcapitato agente di polizia, e possono anche arrivare a lasciare dei
morti ammazzati per strada. In questo modo riescono facilmente a
conquistare le scene di un mondo mediatizzato. Ma, restando confinate
nell’ambito effimero della coreografia, sia pure magari insanguinata,
esse risultano politicamente insulse. La mera rivolta, il cosiddetto
“riot”, se rimangono tali sono classificabili come eventi di fatto
innocui, che si verificano molto più spesso di quanto si immagini e
che non scalfiscono mai il potere. Anzi, in genere creano le tipiche
condizioni per la più agevole delle reazioni da parte degli apparati
repressivi dello stato e offrono l’occasione per una svolta di tipo
più o meno surrettiziamente autoritario.
E' quello a cui stiamo assistendo in queste ore. Peraltro le polemiche
sugli scontri hanno completamente oscurato tutto il resto, compreso il
dibattito sulla piattaforma politica del movimento nel suo complesso.
Ma è possibile definire almeno quella proveniente dalla “parte
pacifica”?
Occorre ammettere che, sul piano dell’analisi e della proposta
politica, anche la parte cosiddetta “pacifica” del movimento appare in
enorme difficoltà. Consideriamo ad esempio la declamata categoria dei
“beni comuni”, che dovrebbero caratterizzarsi per il fatto di poter
esser gestiti collettivamente senza la mediazione né mercato né dello
stato. Nella definizione scientifica originaria il concetto descrive
una forma di organizzazione delle relazioni economiche precisa ma con
applicazioni decisamente limitate. Invece, nel senso in cui viene
adoperata all’interno dei movimenti, l’espressione “beni comuni”
costituisce una espressione equivoca, che in quanto tale significa
tutto e niente. La sua ambiguità, si badi, non è casuale. Essa deriva
dal fatto che alcune teste pensanti del movimento si illudono,
attraverso di essa, di promuovere la nascita di un modo generale di
produzione sociale che sia immediatamente “altro” rispetto allo stato
e al mercato. Letti in quest’ottica i “beni comuni” rischiano dunque
di assumere i tratti di una chimera inutile e fuorviante. Non è un
caso che i marxisti e i veri protagonisti del movimento operaio
novecentesco non si sono mai lasciati sedurre da simili illusioni: per
loro, il primo problema è sempre consistito nella presa – graduale o
rivoluzionaria – del potere statale, nell’uso delle leve dello stato
per la socializzazione della produzione e nella progressiva
democratizzazione delle decisioni economiche. Ed anche oggi, quello
della presa delle “casematte” dello stato resta la questione chiave.
Il resto è solo fuffa.
Il movimento però invoca anche il “ripudio del debito”.
Qui la questione è un po’ diversa. Contrariamente a quel che si pensa,
non si tratta di una proposta utopica: la stessa storia del
capitalismo è costellata di fallimenti di stati sovrani. Il problema è
che bisognerebbe poi avere ben presenti le conseguenze di un simile
atto.
Infatti l’obiezione più comune è che un “ripudio del debito”
implicherebbe un crollo dell’intero sistema finanziario, con
ripercussioni sociali peggiori di quelle che già si registrano.
In realtà la questione preliminare è un altra. Rifiutarsi
unilateralmente di pagare il debito implica poi la capacità, da parte
di un paese o di un aggregato di paesi, di fare a meno dei prestiti
esteri per un lungo periodo. E’ chiaro infatti che se si cancella il
debito con una mano e poi si chiede un nuovo prestito con l’altra, si
subirà la logica rappresaglia di un feroce aumento dei tassi
d’interesse e di un fatale razionamento dei finanziamenti da parte dei
creditori esteri. Per fare a meno dei prestiti, allora, bisognerebbe
pianificare una strategia di politica economica che consenta di
diminuire le importazioni e, più in generale, che persegua l’obiettivo
di ridurre la dipendenza del paese dai movimenti internazionali di
capitali e di merci. Si tratta chiaramente di una linea che
affiderebbe di nuovo un ruolo forte allo stato nazionale, o a una
comunità di stati che puntino a una politica economica più autonoma
rispetto alle leggi impersonali della cosiddetta globalizzazione
capitalistica. In questo scenario anche l’instabilità finanziaria che
consegue a un default potrebbe essere gestita, sottoponendo la
politica monetaria della banca centrale al potere degli organi
elettivi, e magari nazionalizzando parte del sistema bancario. Sono
queste del resto le soluzioni che in genere hanno tipicamente fatto
seguito a un default sovrano.
Non mi pare che sia questo l'orizzonte entro cui si muovano i
sostenitori del ripudio del debito.
Alcuni promotori del “ripudio del debito” sono in imbarazzo di fronte
a queste logiche conseguenze del loro slogan. Il motivo è che essi
hanno per anni proclamato la morte degli stati nazionali, lo hanno
fatto persino con più veemenza dei cosiddetti liberisti. Per questo
tali esponenti del movimento oggi non appaiono in grado di trarre
dalla parola d’ordine del ripudio unilaterale del debito una precisa
conseguenza sul piano politico: quella del ripristino di una idea di
sovranità dello stato, o di un gruppo coeso di stati, rispetto ai
meccanismi del mercato globale. Sembra che io stia facendo un discorso
troppo alto, ma non lo è: il popolo annusa l’aria, e comprende subito
se una proposta abbia un senso logico e conduca a qualcosa, oppure sia
intrinsecamente contraddittoria e porti in un vicolo cieco. Anche per
queste incertezze, per queste fragilità insite negli slogan della
parte cosiddetta “pacifica” del movimento, i “demolitori” prendono
agevolmente il sopravvento.
Al di là della perseguibilità “tecnica” del percorso che lei ha appena
delineato, c'è tuttavia un punto politico dal quale non si può
prescindere: quali sarebbero gli alleati di un simile progetto? Il
rifiuto del debito è attualmente una parola d'ordine di poche frange
marginali dell'estrema sinistra. E per fare cose tipo “sottoporre la
politica monetaria della banca centrale al potere degli organi
elettivi” ci vorrebbe di fatto un “governo rivoluzionario
continentale”. Sinceramente non mi pare una ipotesi realistica.
Francamente non scomoderei la parola “rivoluzione”, che oggi mi pare
un po’ abusata. Del resto, prima del famigerato “divorzio” dal Tesoro,
anche Bankitalia era sottoposta a un controllo di quel tipo, e non mi
pare che all’epoca i cosacchi si abbeverassero a San Pietro. Ad ogni
modo, qui dobbiamo intenderci su un fatto: l’agenda politica corrente,
intorno alla quale le istituzioni europee, i governi e le stesse
opposizioni si affannano, è essa stessa auto-contraddittoria. Se in
Europa insisteremo con le cosiddette politiche di “austerità”, la
domanda di merci, la produzione, l’occupazione, i redditi e quindi
anche le entrate fiscali si ridurranno ulteriormente, per cui
diventerà sempre più difficile rimborsare i debiti. In questo modo,
anziché contrastare la speculazione finanziaria, si finirà per
alimentarla. Teniamo presente che proprio a causa di tali politiche la
Grecia è già tecnicamente fallita. Proseguendo lungo questa via anche
l’Italia, il Portogallo e la Spagna finiranno per incamminarsi verso
un inesorabile default. Non solo: il ripudio del debito, in quanto
tale, potrebbe rivelarsi persino insufficiente. I paesi in default
potrebbero infatti vedersi costretti anche a uscire dalla zona euro e
svalutare, per tentare di accrescere la competitività verso l’estero e
interrompere il declino della domanda e della produzione. Insomma, gli
eventi potrebbero a un certo punto correre più veloci sia dell’agenda
politica istituzionale che degli stessi slogan di movimento. Non
sarebbe la prima volta.
L'ipotesi di una uscita dalla zona euro è una prospettiva concreta. Ma
ha senso sul piano politico? Lei si limita a prevederne la possibilità
o crede che gli stessi movimenti e partiti di sinistra – sopraggiunte
determinate condizioni – dovrebbero sostenerla attivamente?
L’uscita dalla zona euro può risultare a un certo punto una necessità
oggettiva. Ma da qui a ritenerla vantaggiosa ce ne passa, soprattutto
se esaminiamo il problema dal punto di vista dei lavoratori.
Ricordiamo cosa avvenne nel 1992, durante una crisi per più di un
verso simile a quella attuale. Sotto l’attacco della speculazione, il
governo italiano attuò prima una serie di pesanti politiche di
austerità, che non calmarono i mercati. Quindi decise di sganciare la
lira dal cambio fisso con il marco. Tuttavia, per impedire che la
svalutazione della lira e il conseguente aumento del prezzo delle
merci importate scatenassero una rincorsa salariale, i sindacati
furono chiamati a firmare un accordo sul costo del lavoro molto
vincolante. I lavoratori pagarono così due volte: a causa delle
politiche di austerità e poi a seguito del freno imposto ai salari. Ci
sono motivi per ritenere che oggi potremmo assistere a una
riproposizione di quel copione, con effetti ancor più drammatici sulla
stessa funzione del sindacato, che verrebbe ulteriormente compromessa.
Gli economisti di sinistra che oggi invocano lo sganciamento dall’euro
dovrebbero fare più attenzione a questi rischi.
Ma allora, quale potrebbe essere un programma politico in grado
realisticamente di tutelare il welfare e di difendere gli interessi
del lavoro?
La visione dominante contrappone il salvataggio della zona euro agli
interessi dei lavoratori: il messaggio è che se vogliamo la prima
occorre sacrificare i secondi. Ma questa è una lettura ideologica dei
fatti. E’ necessario quindi mettere preliminarmente in chiaro che la
salvezza della unità europea e la salvaguardia degli interessi del
lavoro sono obiettivi coincidenti. Il regime di accumulazione del
capitale fondato sulla finanza privata è infatti entrato in crisi.
Siamo di fronte a una occasione storica per la costruzione di un nuovo
e diverso regime di sviluppo. Per edificarlo, occorre in primo luogo
che l’autorità pubblica abbandoni il ruolo ancillare di prestatore di
ultima istanza del capitale privato, e si faccia invece creatrice di
prima istanza di nuova occupazione. Di prima istanza, si badi, e cioè
non per mera assistenza, ma per la produzione di quei “beni base” la
cui messa in opera risulta fondamentale per il progresso sociale e
civile dell’umanità ma le cui implicazioni tipicamente sfuggono alla
logica ristretta dell’impresa capitalistica privata. Questa sorta di
versione moderna della pianificazione pubblica rappresenta, allo stato
dei fatti, il solo modo razionale che abbiamo per attivare un nuovo
motore “interno” dello sviluppo economico europeo, senza il quale
l’Unione stessa rischia di implodere. In secondo luogo, bisogna
introdurre nuovi strumenti di gestione dei rapporti conflittuali tra
gli stati membri dell’Unione e tra le classi sociali. Un esempio tra i
tanti è lo “standard retributivo europeo”, che consentirebbe di
interrompere la competizione salariale in atto tra i paesi
dell’Unione. Sia pure in forma blanda e in estremo ritardo, di questi
strumenti si inizia a discutere anche in seno ai partiti socialisti
europei. Limitarsi però a invocare queste ricette è del tutto inutile
se la Germania si mette di traverso.
Ma i tedeschi non sarebbero essi stessi danneggiati da una crisi della
zona euro?
Un eventuale ripudio del debito e una serie di svalutazioni
competitive da parte dei paesi periferici indubbiamente darebbero dei
problemi alle banche e alle imprese tedesche. Tuttavia in Germania
queste eventualità sono già state ampiamente messe in conto, e non
fanno più un grande effetto. Non è questione soltanto di una deriva
populista tra i tedeschi. Ci sono anche motivazioni razionali che
spiegano questa crescente indifferenza ai destini dell’eurozona. A
questo riguardo, mi pare che si dimentichi che, in caso di fallimenti
a catena dei debiti sovrani europei, il sistema bancario tedesco ne
uscirebbe in ultima istanza comunque meno peggio di altri. Inoltre, le
svalutazioni ridurrebbero il valore dei capitali dei paesi periferici,
e quindi darebbero ai capitali tedeschi l’occasione per fare shopping
a buon mercato. Insomma, l’ipotesi di deflagrazione della zona euro
non suscita più grandissimi timori e potrebbe trovare persino delle
giustificazioni logiche, in Germania.
E allora come si possono smuovere i tedeschi dalle loro posizioni?
Occorre agire dialetticamente. Bisogna mettere in chiaro che se in
Germania dovesse prevalere la volontà di abbandonare i paesi
periferici al loro destino, allora non sarà soltanto la moneta unica a
saltare, ma si finirà per mettere in discussione anche il mercato
unico europeo e la relativa libera circolazione dei capitali, e al
limite delle stesse merci. I tedeschi debbono cioè comprendere che se
intendono assistere indifferenti alla deflagrazione della zona euro, i
paesi periferici potrebbero reagire imponendo restrizioni ai movimenti
di capitali e di merci. Mi rendo conto che si tratta di una linea
difficile da praticare, soprattutto per i partiti e per i movimenti di
sinistra, che in questi anni sono stati tra i più subalterni
all’ideologia dominante della globalizzazione capitalistica. Ma se in
questa fase vuol davvero fare politica, occorre che la sinistra
politica e di movimento agisca su due fronti: da un lato proporre
soluzioni per rafforzare l’unità europea ma, dall’altro lato,
minacciare l’introduzione di vincoli alla libera circolazione dei
capitali e delle merci nel caso in cui l’eurozona esplodesse. In
fondo, si tratta anche di una linea d’azione uguale e contraria a
quella delle destre populiste, che per anni hanno preteso di
affrontare le crisi con la rozza ricetta dei vincoli alla libera
circolazione dei lavoratori.
Tornando alla giornata di sabato, c’è dunque una lezione che lei crede
si possa trarre da ciò che è avvenuto?
Direi di sì, una duplice lezione. In primo luogo, se si vuole evitare
di cadere nella classica spirale perversa del “riots” e della
reazione, occorre che da domani le piattaforme politiche siano più
chiare, che la tattica e la strategia siano definite, che i programmi
politici siano privi di ambiguità: a partire dalla proposta di restare
o meno nella attuale zona euro, sotto quali condizioni, con quali
proposte di sviluppo economico e di riequilibrio tra gli stati e tra
le classi sociali, e soprattutto a fronte di quali possibili
alternative. In secondo luogo, occorre prendere coscienza che la
politica non può continuare ad arrancare dietro i mercati finanziari
ma deve finalmente anticiparli, prevenirli. La politica, a cominciare
dalla politica monetaria della banca centrale, può battere la
speculazione. Se non si affrontano a viso aperto questi problemi, di
merito e di rapidità dell’azione, ci attenderà una vana sequenza di
spettacolari ma inutili azioni di “guerriglia demolitrice” e di
immancabili azioni repressive da parte dello stato. E intanto
continueremo ad assistere alla scena, un po’ surreale, di banchieri
centrali che spediscono lettere di “commissariamento” ai governi e poi
maldestramente ammiccano alla protesta giovanile.
La lettera di Trichet e Draghi cui lei ha appena fatto riferimento è
stata una delle micce che qui in Italia hanno innescato le proteste.
Criticarla è tanto più opportuno quanto più, anche nella sinistra
riformista, cresce la tentazione di farne la piattaforma politica di
base di un eventuale governo postberlusconiano. Ma Trichet è anche
colui che ha imposto alla Germania – ai suoi governanti come ai suoi
rappresentanti nel consiglio direttivo della Bce - la politica di
sostegno ai titoli del debito pubblico (inclusi quelli italiani).
Quella lettera può essere letta come il certificato di ortodossia da
esibire di fronte ai tedeschi per proseguire con queste misure
certamente non in linea con la filosofia ispiratrice della Banca
centrale europea. Insomma, prendendosela con Trichet e Draghi non si
rischia di puntare il dito contro le colombe anziché contro i falchi
dell'austerity europea?
Trichet ha fatto il minimo indispensabile per salvare la zona euro. Se
non avesse agito a tutela dei paesi periferici, la moneta unica
sarebbe probabilmente già morta e sepolta. Draghi deve ancora dare
prova di sé, a questo riguardo. L’occasione per valutarlo non
mancherà. Presto potrebbe scoccare la cosiddetta “ora x” sui mercati
finanziari, cioè potrebbe essere sferrato un poderoso attacco
speculativo alla zona euro. A quel punto tutto dipenderà dalla
disponibilità o meno di Draghi e degli altri membri del consiglio
direttivo della Bce di rispondere all’attacco con fermezza, in modo da
dare alle istituzioni politiche il tempo di attivare il “motore
interno” dello sviluppo di cui l’Europa unita ha assoluto bisogno per
sopravvivere. La banca centrale ha tutti gli strumenti per dominare la
“bestia” della speculazione. Bisognerà capire se ne avrà la volontà.
Con il dovuto rispetto, dunque, suggerirei al nuovo Presidente della
Bce di rispondere da ora in poi solo con i fatti alle montanti
proteste sociali. Del resto, solo per i fatti egli verrà giudicato.
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