mercoledì 27 febbraio 2013

Rifondazione comunista dopo il voto - FalceMartello

Rifondazione comunista dopo il voto - FalceMartello


Fuori dalle macerie: i nostri compiti
La sconfitta di Rivoluzione civile e di Rifondazione comunista, che ne è stata parte fondante, ha dimensioni senza appello. Non basta quindi un sussulto d’orgoglio o uno sforzo volontaristico per mettersela alle spalle e tracciare una prospettiva credibile. È necessario invece andare alla sua radice originaria e rileggere, alla luce dei dati reali, una realtà che, con ogni evidenza, il gruppo dirigente del nostro partito da tempo non era più in grado di vedere.

Le dimissioni doverose e necessarie di un gruppo dirigente non sono per noi un semplice passaggio consolatorio, o l’occasione per rielencare la lunga, quasi interminabile lista di errori che hanno condotto a questo esito. Il punto è che da tempo ormai era venuta meno una pietra angolare essenziale alla vita di qualsiasi organizzazione, ossia il senso di responsabilità che dovrebbe legare un gruppo dirigente al corpo del suo partito. Questo senso di responsabilità è stato buttato a mare e sostituito con illusioni, improvvisazioni, fughe dalla realtà, desideri scambiati per analisi, piccoli e grandi opportunismi.

Un gruppo dirigente irresponsabile


La lista è interminabile e non la riproponiamo qui. Tuttavia è compito essenziale per tutti i compagni che non intendano abbandonarsi a un pessimismo corrosivo rileggere scrupolosamente il nostro dibattito interno perlomeno a partire dall’ultimo congresso (fine 2011). È stato infatti allora, in coincidenza con le dimissioni di Berlusconi e l’insediamento di Monti, che probabilmente è passato l’ultimo treno per Rifondazione comunista, l’occasione di liberarsi delle pastoie che legavano il partito al centrosinistra e di lavorare, sia pure con grande ritardo, alla costruzione di un credibile punto di riferimento a sinistra, fuori e contro l’unità nazionale, che provasse a connettere politicamente il conflitto sociale che carsicamente continuava a manifestarsi nel nostro paese e infiammava la Grecia, la Spagna, il Portogallo.
Quell’ultimo spazio è stato bruciato per esclusiva responsabilità del gruppo dirigente. Sei mesi sono stati consumati a fingere di tenere in vita il cadavere della Federazione della sinistra, i successivi sei mesi a improvvisare appelli, assemblee e costruzioni fittizie fino a “Cambiare si può”, nata e morta nel giro di un mese per approdare infine sotto l’ala di Ingroia.
La campagna elettorale del candidato premier è stata ai limiti dell’analfabetismo politico, dapprima alla rincorsa di Grillo quando pareva che il suo movimento vivesse una battuta d’arresto, poi, quando su quel fronte si è alzato un muro invalicabile, proponendo Rivoluzione civile come una brutta copia di Sel, rivendicando l’accordo col Pd, aprendo all’ipotesi di fare il ministro in un governo Bersani, fino all’ineguagliabile “se perdo potrei tornare in Guatemala”. Le dichiarazioni post elettorali nelle quali Ingroia ha dato la colpa del disastro al Pd chiedendo le dimissioni di Bersani (!) hanno messo la ciliegina sulla torta. Che Ferrero abbia tentato di spacciare un personaggio simile come la figura che poteva trarre la sinistra fuori dall’isolamento è una macchia incancellabile.
Oltre all’irresponsabilità politica, il gruppo dirigente del Prc ha anche la grave colpa di avere praticato una concezione del partito per la quale c’è la militanza che fa i volantinaggi, le campagne più o meno adeguate (ad esempio i referendum), gli interventi del “partito sociale”, ecc., mentre il gruppo dirigente studia le “tattiche” affinché tutto questo pregevole lavoro trovi adeguata espressione nelle istituzioni. La conseguenza è stata un processo di parziale spoliticizzazione che oggi lascia disorientati ampi settori dei militanti, ai quali non è stata fornita alcuna lettura politica capace di spiegare perché tanto sforzo pare non sortire mai alcun effetto.
Il codismo, l’eterna illusione che mettendosi “in scia” di qualcun altro si possa trovare la scorciatoia per apparire più forti o autorevoli di ciò che effettivamente si è, si è manifestato come vera e propria patologia di questo gruppo dirigente. La conseguenza ora sarà una spinta centrifuga di cui abbiamo già visto i segnali nei mesi scorsi, che può disgregare ciò che resta della struttura del Prc.
Già durante le primarie del Pd si erano visti diversi segnali dell’“attrazione fatale” che il centrosinistra esercitava su diversi dirigenti del partito a livello territoriale. Oggi queste sirene si moltiplicheranno, chi pensa al partito innanzitutto come a una macchina elettorale non resisterà al richiamo di un partito come Sel che, per quanto abbia raccolto numeri modesti elegge decine di parlamentari, se non dello stesso Pd. Intendiamoci: perdere questi “dirigenti” non sarà certo un rimpianto, ma il punto è che se non c’è una lettura capace di offrire una prospettiva diversa resta solo un processo di frammentazione che, di per sé, non genera alcun contraccolpo positivo.
Altri teorizzeranno che, poiché il Movimento 5 stelle in fondo dice anche cose di sinistra e per giunta prende milioni di voti, allora forse è lì che bisogna buttarsi.

Quale congresso è necessario


Tra il riconoscere i propri errori e attribuirne la colpa a qualcun altro, troppo spesso si sceglie la seconda strada. La prima reazione ufficiale del Prc è affidata a una nota del segretario Ferrero che, spandendo pessimismo a piene mani, ci informa che “siamo finiti in pieno” dentro a una situazione analoga a quella della Repubblica di Weimar. Insomma non siamo noi che sbagliamo, è il mondo che va dalla parte sbagliata. A Ferrero vorremmo fare una sola domanda: se l’Italia del 2013 è la Germania del 1932, chi sarebbe Hitler? Monti? Grillo? Bersani? Basta porsi la domanda per capire l’assurdità di certe “analisi”.
Il Prc deve fare un congresso. Non un dibattito improvvisato o frettoloso, ma un serio percorso di analisi, orientando i propri militanti in primo luogo verso le fabbriche, verso i giovani, per ascoltare e annodare un filo di dialogo che è stato interrotto da un gruppo dirigente che ha completamente abbandonato l’idea di poter radicare il partito nel conflitto di classe per dargli un riferimento e una espressione politica compiuta.
La situazione odierna non è quella di Weimar di cui straparla Ferrero, ma è una situazione caratterizzata innanzitutto dalla scomparsa dallo scenario politico di qualsiasi espressione indipendente della classe. La ricerca di soluzioni magiche, il gettarsi a destra e a sinistra nella speranza di un miracolo, l’alternarsi di speranza e disperazione, la ricerca di salvatori, sono le classiche manifestazioni delle classi medie, della piccola borghesia e di un “popolino minuto” stritolato dalla crisi e privato di punti di riferimento. Il riscatto potrà iniziare solo se invece di contemplare a bocca aperta questi fenomeni e di tentare di imitarli, sapremo innalzare la bandiera dell’indipendenza di classe, di una critica del sistema che sia fondata su una autentica visione rivoluzionaria (non “civile”…), di un conflitto che sappia esprimersi su tutti i terreni: sociale, sindacale, politico, ideologico. Se, o meglio quando, la classe lavoratrice di questo paese si doterà degli strumenti necessari per questa battaglia, potrà rapidamente aggregare anche quei milioni di persone che in queste elezioni hanno cercato la soluzione nel voto 5 stelle, e non solo.

Per il partito di classe

Può Rifondazione comunista essere parte di questo processo? La risposta la daranno gli avvenimenti stessi. Se nel gruppo dirigente prevale una volta di più la palude codista, la ricerca di qualche carro a cui aggrapparsi, il Prc è condannato definitivamente. Lottiamo fino all’ultimo contro questo sbocco, ma non ci assumiamo neppure un grammo di responsabilità per quanto ha fatto fin qui questo gruppo dirigente e tantomeno per le nuove avventure nelle quali dovesse eventualmente imbarcarsi.
Ciò che di questo partito rimane ancorato a una prospettiva di classe può e deve trovare posto nella battaglia per ricostruire non una organizzazione ormai al lumicino, ma quel partito di classe più che mai necessario, meglio ancora storicamente necessario, affinché la crisi del capitalismo non sbocchi nella barbarie ma nel rovesciamento di questo sistema marcio. Proporremo questa battaglia a tutti, ma non ci attarderemo neppure un minuto a tentare di convincere gli scettici, i pessimisti e i professionisti del piagnisteo che hanno avuto non poca parte nel condurre a questo esito.


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