Parola d’ordine: ANTICAPITALISMO
Era il luglio 2001. Dieci anni fa Genova ospitava la grande adunata dei grandi della terra. Ma dieci anni fa la stessa città, Genova, ospitava un'adunata ancora più grande composta dai piccoli della terra. Dagli sfruttati, da operai, pacifisti, militanti, dai primi precari che cominciavano a sentirsi tali. Dieci anni fa Genova ospitava soprattutto loro, il popolo degli anticapitalisti. Partiamo con questa consapevolezza per ricordare Genova 2001. Perché questo è il nodo centrale di tutta la faccenda: il perché quelle giornate hanno rappresentato un spartiacque, il perché così tanta pressione fu concentrata su quei giorni, il perché un giovane di vent'anni venne ucciso, il perché oggi, a dieci anni di distanza, è necessario ricordare quell'evento. Genova 2001 ha rappresentato il risveglio di una generazione che tutti credevano persa. Quella generazione cresciuta dopo la caduta del muro di Berlino e che nel cosiddetto mondo pacificato osava ancora mettere in discussione il modello di sviluppo vincente, quello che tale era uscito dalla Guerra fredda. Quel movimento, con tutti i suoi limiti e le sue incongruenze, gli scatti e le frenate, faceva paura. Faceva paura perché, nonostante tutto, aveva una portata rivoluzionaria: affermava che un mondo diverso era possibile fuori dal sistema capitalista. Rivendicava quella diversità e chiedeva un cambio strutturale. Insomma, a dieci anni dalla fine dell'Unione sovietica, per le democrazie occidentali tornava quell'incubo che credevano ormai morto: lo spettro continuava ad aggirarsi e non veniva da fuori, non proveniva dai paesi del Terzo mondo. No, stava imperversando proprio all'interno dell'impero. Perciò, quel movimento andava fermato, schiacciato, annientato. Così è stato. E' bastato un colpo di pistola, un proiettile volante su un manifestante e quella voce di protesta si è via via spenta. Subito si è fatta più forte, per dimostrare che niente era cambiato, ma anno dopo anno si è fatta più fioca, più divisa e più impaurita. Genova 2001 è necessario ricordarla per questo. Dopo quelle giornate, senza più Carlo, quel popolo così eterogeneo ma anche così unito nella propria idea di cambiamento si è smarrito, si è frazionato in centinaia di rivoli. Più confuso, più rissoso al suo interno, più fragile. Il dolore e la paura sono stati la chiave che il padronato ha usato per fare terra bruciata di quello che rimaneva dei diritti dei lavoratori e della spesa sociale in Italia. La precarietà, oltre che forma di lavoro e di sfruttamento, è diventata anche un modo di essere senza esistere.
E adesso cosa rimane? Rimane una sinistra anticapitalista in crisi, un sindacato che per la maggior parte non sa più fare il sindacato, rimane un tasso di disoccupazione giovanile al 30% e uno generale quasi al 10%, rimangono le speculazioni finanziarie selvagge e una crisi economica spaventosa che ha creato il capitale e che i lavoratori devono pagare. Ah dimenticavo, rimane anche lo stesso governo o quasi di dieci anni fa. Ancora peggiore, più feroce e più sprezzante. Ma, a dieci anni di distanza, rimane anche la voglia di lottare e di opporsi ai vari piani Marchionne o alla Tav, ai tagli alla spesa pubblica come al tentativo di passare al nucleare e di privatizzare l'acqua. Il fiore della ribellione, per parafrasare una canzone, non è morto. Il problema di questo tempo è come riuscire ad amalgamare tutte queste istanze e a dargli sostanza, come ri-ideologizzare le lotte e farle convergere sul punto nodale che tutte le accomuna: la necessità di cambiare il sistema economico capitalista.
Ricordare Genova 2001 è sicuramente un primo passo in avanti.
Marxo
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