giovedì 29 novembre 2012

Operai lasciati soli. La sinistra oggi non esiste


Operai lasciati soli. La sinistra oggi non esiste

MERCOLEDÌ 28 NOVEMBRE 2012 16:10 REDAZIONE Sinistra comunista
«È da molto che preferisco non parlare, ma ho seguito le interviste che state facendo con Pubblico e lo trovo importante. Ci sarebbe bisogno di un luogo dove ricominciare a discutere ».
Fausto Bertinotti mi riceve con la sua consueta gentilezza. Da tempo ha rinchiuso i suoi impegni tra sporadiche lezioni in alcune università e la sua rivista Alternative per il socialismo. Sono andato a trovarlo con curiosità. Provo a tirargli fuori qualcosa sulle primarie. Ma ci vuole quasi il forcipe.


«Ho una grande ritrosia a intervenire sulla prima linea. Comunque, se devo – al di là dell’istanza della partecipazione, che scavalca lo stesso ragionamento politico – io credo che la carta d’intenti abbia costituito una prigione. Entro quei confini, non si è potuta aprire una dialettica veramente politica nelle primarie. Per esempio, tra parità di bilancio o no. Ed ha prevalso inevitabilmente un conflitto fuorviante tra vecchio e nuovo».

Va bene. Ci samo tolti il dente. E adesso, visto che hai letto le precedenti interviste, scegli tu da dove vuoi cominciare. 
Forse potremmo iniziare da quello che rispondono sia Rossanda che Rodotà, quando gli chiedi che cosa c’è stato di interessante dopo l’89 sulla scena europea e mondiale: i movimenti. Immagino non ti sorprenderà: ma anche io credo che si debba partire da lì, da queste realtà e potenzialità.

Parliamo allora del tema dell’efficacia, che non c’è, come dice la Rossanda? 
Va bene, però facciamo un passo indietro. Partiamo invece dalla sconfitta. Nel 1989 c’è stata una sconfitta storica. Molti di noi l’hanno sottovalutata. Forse perché non amavamo quei regimi. Ma è vero, come dice Hobsbawm: il 1989 chiude il secolo breve. E lo chiude con una sconfitta storica. E allora, se vogliamo capire le difficoltà oggi dei movimenti, forse conviene partire da un’altra grande sconfitta, che è stata molto importante per il movimento operaio.

Quale?
La comune di Parigi del 1871.

Accipicchia. E perché? 
Perché anche allora si dovette elaborare una sconfitta. E anche allora il tema che si posero tutti, da Marx in giù, fu quello di come conquistare la vittoria, o come diremmo oggi, l’efficacia. Alla fine quella ricerca generò l’invenzione geniale del partito operaio, sia nella versione tedesca che leniniana. Però, pensaci, per arrivarci, fu necessario un lungo ciclo, durato decenni, di transizione. Ci furono tanti tentativi, moti, grandi conflitti, una grande idea teorica che prende forza. Ma tutte le forme di organizzazione restarono a lungo incerte e labili.

Insomma tempi lunghi? 
Capisco l’impazienza verso i movimenti. Ma siamo all’indomani di una sconfitta storica, ancora più grande, anche se meno violenta.

D’accordo. Assumiamo l’analogia. Non c’è tuttavia qualcosa nei nuovi movimenti che mette in scacco le forme di organizzazione, unificazione e quindi di efficacia che abbiamo conosciuto nel ’900?
Sono d’accordo. Anch’io come la Rossanda sono sicuro che qualcosa rinascerà. Ma non credo che il problema dell’efficacia si possa risolvere rifacendo il partito del ’900. E neanche il sindacato. Però certe difficoltà non sono nuove. Pensa – alle origini del movimento operaio – ai conflitti a fuoco tra operai generici e specializzati, quando gli uni funzionavano come massa di manovra contro gli altri; o tra operai e contadini; tra operai e intellettuali. Anche allora, per superarli fu necessaria una grande costruzione culturale. Il problema dell’organizzazione è sempre un problema politico a tutto tondo.

Quindi niente di nuovo sotto il sole? 
No, naturalmente. Siamo di fronte a un grande mutamento della composizione sociale. E ogni volta che cambiano le figure sociali prevalenti, bisogna innovare i contenuti della politica e le forme di organizzazione. Pensa all’irruzione negli anni 60, dell’operaio comune di serie e dello studente di massa; e per restare solo alla prima di queste figure, all’invenzione dei consigli di fabbrica e all’egualitarismo nelle rivendicazioni sindacali. Ma oggi, la vera differenza è un’altra.

Quale? 
Quello che rende drammatica l’attuale mutazione è che avviene nella totale solitudine operaia. Non ha un’armatura, né ideologica, né culturale né organizzativa. La differenza è l’assenza del movimento operaio, delle sue organizzazioni e cultura. Perché non mi si dica che la sinistra che c’è oggi in Europa è erede del movimento operaio.

E cosa è?
La sinistra prevalente oggi ha culture liberali o social-liberali, come le chiama Bellofiore. Pensa alla vicenda Marchionne o la contiguità al montismo. Non si possono spiegare se non si vede che è stato abbandonata ogni lettura di classe. Chi oggi usa in questa sinistra, categorie come salario, profitto e rendita?

E questo come lo spieghi? 
È che la sinistra, in tutte sue componenti, non ha saputo fare l’operazione che gli avi hanno fatto dopo la comune di Parigi. Invece di elaborare le ragioni della sconfitta, ha derubricato la sconfitta. Ha evitato di elaborare il lutto. E così non ha avuto la capacità di rielaborare le ragioni della propria esistenza. Per questo oggi i partiti sono realtà estremamente insignificanti dal punto di vista delle culture politiche. E per questo mi interessano i movimenti.

Perché stanno facendo questa elaborazione? 
Io credo di si. Direi che acchiappano le questioni, pur senza risolverle. Forse c’è un offuscamento della lettura di classe. Ma provano a rielaborare i temi dell’uguaglianza, della democrazia e si confrontano criticamente, sia pure solo prevalentemente dal punto di vista delle conseguenze, e senza saper proporre alternative, con l’attuale capitalismo finanziario. Viceversa tutti questi temi sono stati posti fuori dell’agenda della politica. E a proposito di efficacia: quanto efficaci sono oggi i pariti?

Eppure, io insisto. A me sembra che c’è davvero qualcosa di nuovo nei movimenti, che rende difficile il loro strutturarsi. Per esempio c’è un’inedita forte rivendicazione di diversità e autonomia. 
Sono d’accordo. Ed è un elemento promettente, ma anche un bel casino. È promettente perché ci permette un ragionamento critico sulla nostra esperienza, che ha sacrificato diversità e libertà all’idea della vittoria o dell’efficacia. Sarei più cauto a dire all’idea dell’uguaglianza: perché secondo me, la repressione delle libertà e del dissenso nella tradizione comunista, è stata fatta più in nome della preservazione del potere o dell’efficacia dell’organizzazione. Comunque questo fatto, secondo me, è utile.

Però dicevi è anche un casino? 
Sì. Perché – e ce lo aveva già annunciato il femminismo –pone il tema della non rappresentabilità. Allora le donne ci mostrarono che non sarebbe stato facile immettere la loro soggettività nella cultura e nelle forme di organizzazione della sinistra. E oggi il tema si pone anche in termini di soggetti collettivi. E come si affronta? Secondo me bisogna ripartire – più che dai partiti, che mi sembrano ormai degli elementi morti – dall’idea di coalizione.

Ma la coalizione non è ciò che si prova a fare da più di 10 anni nei movimenti, senza successo? 
Io proverei a vedere questi anni in modo meno lineare. Sono stati anche tempi di occasioni mancate. Nel 2001, all’epoca del movimento alterglobalista. non è vero che all’ordine del giorno c’era la coalizione. Almeno in Europa, il tema era quello del rapporto tra movimenti e partiti. E sindacati. E lì c’è stato il fallimento dei partiti, anche di quelli più interessati.

Ti riferisci a Rifondazione comunista? 
È la responsabilità più grande che sento. Rifondazione, che è stato il partito più interessato e interno al movimento non ha avuto il coraggio di giocarsi per intero la partita: sciogliersi per costruire insieme a quelle forze un progetto nuovo.

Quindi questo pensi sia stato l’errore più grande: il mancato scioglimento? 
Sì.

Non è stata più fatale l’esperienza di governo? 
Sì, dal dal punto di vista di Rifondazione non c’è dubbio.

E rispetto a quell’esperienza, cosa ti rimproveri? 
Non so onestamente cosa avremmo potuto fare di diverso, perché eravamo sotto il macigno dell’accusa di far vincere Berlusconi. Ma certamente ho peccato di ottimismo. Ho sopravvalutato la permeabilità delle istituzioni ai movimenti. Non ho visto la crisi istituzionale, già in atto, lo svuotamento del parlamento. Ho anche sopravvalutato la forza dei movimenti. Però il tema che propongo è che a Genova c’è stata un’occasione. Per noi che avevamo una struttura si poteva tentare quella strada.

Pensi al caso di Syriza, che si ispirò molto, all’inizio, a Rifondazione? 
Possiamo non chiamarlo scioglimento. Però il punto è che la trasformazione del Synaspismos in Syriza avvenne in quel momento. Assumendo in pieno quel rapporto con i movimenti. Era niente. Erano una forza quasi insignificante. E sono diventati protagonisti sulla base della loro osmosi con i movimenti; e oggi del loro rapporto interno con la rivolta, del loro matrimonio con la rivolta.

Insomma tu dici, allora ci fu un’occasione. Ma quella stagione si è chiusa. 
Sì, per questo metto l’accento sulla coalizione. Perché, diversamente dal passato quando il processo di autoriforma poteva essere tentato, oggi quello che rimane sul campo in termini di forze politiche, mi sembra privo di possibilità di autoriforma. Io credo che per ricostruire una sinistra si debba pensare a un processo costituente, che parta dalle potenzialità di questi soggetti emergenti. Il tema è imparare a stimolare le nuove istituzioni che i movimenti possono darsi.

A proposito di movimenti, sei andato alla manifestazione del 14? 
Sì. Sono andato a vedere gli studenti medi. C’erano anche i miei nipoti. Mi ha colpito molto l’omogeneità e la compattezza. Tutti ragazzi e ragazze tra i 14 e i 19 anni. Nessuno sopra i venticinque anni.Non c’erano leader, partiti, organizzazioni, bandiere. C’erano due soli contenitori: l’essere medi e gli istituti.

E tu cosa ci hai visto? 
Al di là delle rivendicazioni specifiche, io ho visto una generazione che sviluppa una coscienza critica di sé. Chi siamo? Siamo gli esclusi. Siccome stiamo fuori, vogliamo entrare. A fare che? A presentarci. Vogliamo arrivare ai palazzi del potere per dire: presente. Io ci ho visto la costruzione di un elemento identitario e anche un modo riformato di praticare la politica.

E sul tema degli scontri? 
Sai quanto per me sia importante il tema della non violenza. Però se ci parli, loro ti dicono: io non sono un violento. Non voglio fare lo scontro. Però voglio passare. Perché è un mio diritto. E se tu mi fermi io mi metto il casco. E prima o poi passerò. Comunque, il tema è: chi ci parla con questi ragazzi?

Tu dici, i partiti no? 
No. Questo è il punto. Io credo che ormai ci sia un’irriformabilità dall’interno del sistema politico italiano e dei partiti così come sono. Lo dimostra ciò che sta ormai fuori dal sistema politico. E lo dimostra anche il dibattito sulla legge elettorale.

In che senso? 
Dico: dovresti mettere a fuoco il tema della crisi della rappresentanza. Dovresti interrogarti su quale sistema può dare spazio e voce a chi non ha più rappresentanza. L’unico quesito che ci pone è invece come vincere una campagna elettorale. L’importante è conquistare il governo, o il tema della governabilità. Magari tenendosi il Porcellum.

E di Grillo cosa pensi? 
Io penso che va guardato con un occhio diverso da quello con cui siamo abituati a guardare alle forze politiche. Non perché non lo sia. Lo è. Ma perché mi sembra un esercizio un po’ sovrabbondante, inutile. Vuoi che, se ci mettiamo a discutere, non abbiamo tutti fastidio per le sue forme di iper-leaderismo, l’uso del gesto clamoroso, la forma autoritaria di intervento sui gruppi dirigenti? Va bene. Però una volta fatto tutto questo, parliamo d’altro.

Perché? 
Perché per me è un fenomeno parallelo all’astensione. Sono due fenomeni fratelli di fuoriuscita dal sistema politico e dalla democrazia rappresentativa: con più o meno collera, sdegno, rancore, ma di fuoriuscita di massa.

Che vuoi dire? 
Voglio dire che è poco importante il giudizio di merito sul Movimento 5 stelle o chiedergli qual è il suo programma. Quanto il fatto di capire perché prende forza. E lo fa perché è un ariete contro il sistema politico. Il suo obiettivo è abbattere questo sistema politico. E il punto è che è un obiettivo fondato. Ha una giustificazione storica: la morte della seconda repubblica e l’esigenza di seppellirla. Solo che questa esigenza non trova riscontro dentro il sistema politico.

Cosa pensi si stia preparando? 
Proprio non so dirlo. Del resto in tutta Europa non si capisce. Pensa alla Grecia. Ma anche al crollo vertiginoso del consenso a Hollande. Comunque, se il sistema non si riforma – e io non credo sia capace di farlo – il crollo può essere traumatico.

Cosa vedi tu in campo? 
Da un lato vedo sostanzialmente evoluzioni del montismo. La soluzione che la classe dirigente italiana ed europea ha trovato alla crisi italiana.

E qual è? 
È quella prigione a cui facevo riferimento parlando delle primarie. Un nuovo ordinamento che mira alla conservazione del modello economico e sociale, fondato su parità di bilancio e introduzione di elementi di governo oligarchico: entrambi presentati come ineluttabili, anche attraverso il riferimento ai mercati e all’Europa.

E che altro?
Poi vedo i conflitti in tutte le loro manifestazioni, che rimangono tutti esterni a questa ipotesi di fuoriuscita, governata dall’alto, dalla crisi della seconda repubblica. Esprimono un’opposizione incompiuta nel corpo della società: con elementi di rivolta, ma al momento, senza alternativa. Infine, distinto, c’è il partito dell’opposizione al sistema politico.

Che sarebbe? 
È un conflitto che invece di essere un conflitto destra contro sinistra, classi subalterne contro classi proprietarie, è tra sistema politici e abbattimento di questo sistema. Un tempo si sarebbe detto tra l’alto e il basso della società.

Un fenomeno populistico? 
Sì, possiamo chiamarlo così, purché non usiamo questo concetto come una categoria immobile. E dismettiamo un atteggiamento – non dico critico, che è necessario –ma sprezzante, per indagare bene il fenomeno. Quello che oggi chiamiamo populismo, sono fenomeni molto diversi e magmatici. Perché non si sono ancora costituiti con una loro fisionomia. Comunque è chiaro: c’è una pulsione anti- elitaria, che si proietta contro la casta e i suoi privilegi, ma dietro la quale c’è un senso profondo di disagio, abbandono, frustrazione e solitudine.

E in tutto ciò la sinistra?
Io credo che una sinistra che non sia in grado di riprendere la critica del capitalismo del nostro tempo non ce la fa ad esistere. La scomparsa della nozione di capitalismo è cruciale. Questo tema non c’è più nella scena politicoculturale da 25 anni. Senza questa critica, non hai autonomia; e le forze che ti richiamano alla responsabilità sono troppo forti. E senza questa critica, anche i movimenti, o la polarizzazione alto-basso, possono anche raggiungere momenti altissimi di mobilitazione della protesta, ma non vanno ai nodi di fondo: non si risale alle cause e non si risolve il tema dell’efficacia.

Marco Berlinguer - Pubblico

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