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Idee e contributi per l’ALTERNATIVA
Foglio in rete dell’Associazione Culturale Punto Rosso
www.puntorosso.it e-mail: carrara@puntorosso.it
COSTRUIAMO UN
MOVIMENTO PER LA DIFESA
DEI BEI COMUNI
FERMIAMO GLI AVVOLTOI
SIAMO NUOVAMENTE AL
VERDE! CONTIAMO SU DI VOI. NOTA DELLA SETTIMANA
Il bellissimo risultato referendario ci
parla di una maturità popolare raggiunta
sui temi dei beni comuni e
dell’ambiente che difficilmente potrà
essere aggirata: il messaggio politico è
chiaro l’acqua, ma anche gli altri beni
comuni come la conoscenza, la scuola
pubblica, il lavoro ecc. non potranno
essere svenduti, lo stanno a dimostrare
le numerose e multiformi mobilitazioni
che ci sono state in tutti questi mesi nel
Paese. Questo dato unito a quello delle
recenti amministrative indica che la
passione politica e la voglia di partecipare,
sono tornate, soprattutto tra i giovani.
Occorre però da subito essere vigili,
perché le lobby dei privatizzatori, di chi
con una pretesa “imprenditoriale” vorrebbe
assicurarsi profitti sicuri con i
servizi pubblici non mollerà facilmente
questo succulento piatto. Inoltre c’è chi
nonostante il pronunciamento popolare
se ne infischia della democrazia e che
come il presidente di Gaia Tucci annuncia
che intende andare avanti con
la privatizzazione. A questo punto ci
chiediamo ma questo signore è stato
eletto da qualcuno? Chi rappresenta?
Non sa che c’è stato un referendum
popolare e che 27 milioni di cittadini
hanno detto che l’acqua non può esse-
Sommario:
§ - CAMPAGNA PER LA SOPRAVVIVENZA DI PUNTO ROSSO.………………………………….pag. 1
§ - NOTA DELLA SETTIMANA di Ernesto Ligutti...………………………..……….………………..pag. 1
§ - BENI COMUNI E BENI PUBBLICI:
QUALCHE PRECISAZIONEdi Mimmo Porcaro……..…..…………………………………………pag. 2
§ - PROPOSTA PER IL DOPOVOTO di Riccardo Petrella………………………………………......pag. 5
§ - UN VOTO COSTITUENTE di Ugo Mattei……………………………………………………………pag. 6
§ - UNA VITTORIA CHE VIENE DA LONTANO di Stefano Rodotà…………………………………pag. 7
§ - L'ACQUA FERMA L'ONDA LIBERISTA. di Emilio Molinari……………………………………...pag. 9
18 Giugno 2011
CAMPAGNA PER LA SOPRAVVIVENZA
DI PUNTO ROSSO 2010-2011
1991 - 2011: vent'anni di attività dell'Associazione
Culturale Punto Rosso,
di cultura e di politica a sinistra,
dalla parte del pensiero critico e della
giustizia sociale e ambientale
globale.
Facciamo in modo che il Punto Rosso
possa continuare a svolgere le
proprie attività, a superare questo
difficile momento, nel ventennale
della propria esistenza. Invitiamo
tutte e tutti a sottoscrivere. E’ una
questione di vita o di morte.
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re privatizzata e non si può fare profitti
con essa? Sarebbe l’ora di eliminare le
spa e i consigli di amministrazione che
di certo non fanno l’interesse dei cittadini.
Questo ci fa presagire che le manovre
per aggirare il responso referendario
sono iniziate, infatti già si parla di proposte
ed di leggi regionali e nazionali
per colmare “un vuoto legislativo”. Per
parte nostra saremo vigili e proponiamo
ai movimenti per l’acqua bene comune,
alle forze politiche che hanno sostenuto
i referendum di mantenere in piedi il
Comitato provinciale per l’acqua, allargando
ancora ad altri soggetti per costituire
un Movimento per i Beni Comuni
ed impegnandosi a sostenere, per esempio,
la legge di iniziativa popolare
depositata in Parlamento dai movimenti,
che ha raccolto 400 mila firme (ne
occorrevano 50 mila) sull’acqua, a mobilitarsi
e vigilare e a far tornare l’acqua
sotto il controllo delle comunità locali,
questo era possibile farlo prima e a
maggior ragione è possibile farlo adesso
dopo il referendum prevedendo inoltre
la partecipazione dei cittadini e dei
lavoratori.
BENI COMUNI E BENI PUBBLICI:
QUALCHE PRECISAZIONE
di Mimmo Porcaro
1.
Il tema dei beni comuni si sta rapidamente
diffondendo nel discorso politico
italiano, ricordando a tutti quanto sia
legittimo ribellarsi alla privatizzazione
del mondo e suggerendo che la riappropriazione
sociale delle risorse essenziali
non può ridursi semplicemente
alla loro statizzazione. Come sempre
avviene, diffusione fa rima con confusione
ed ormai si parla di “bene comune”
molto al di là degli ambiti in cui
questa nozione è sorta: ma confusioni,
ambiguità e slittamenti di significato
sono necessari all’affermazione di qualunque
idea, e sarebbe davvero segno
di pedanteria pretendere che la nascita
di una nuova visione avvenga sotto il
segno del rigore definitorio.
Precisare un’idea diviene però doveroso
quando la pur inevitabile confusione
rischia di generare effetti che contraddicono
l’idea stessa, come accade
quando gli slittamenti di significato del
“bene comune” portano a sottovalutare,
o a ritenere del tutto superata la questione
della proprietà pubblica delle risorse
essenziali e degli stessi principali
mezzi di produzione. Cosa che può avere
conseguenze assai negative soprattutto
in un Paese come il nostro, in
cui vent’anni di espropriazione privata
della proprietà pubblica rendono particolarmente
difficile rivendicare la natura
“comune” di qualunque risorsa senza
una contestuale trasformazione delle
strutture proprietarie.
Tentiamo quindi la strada della precisione,
attingendo ad alcune riflessioni
giuridiche1 che distinguono con una
certa nettezza i beni comuni dai beni
pubblici.
Dunque: cosa sono i beni comuni? Sono
i beni che ontologicamente, ossia
per la loro intrinseca natura e per la
loro relativa abbondanza, posseggono
le caratteristiche della non rivalità e della
non esclusività. Sono beni non rivali
perché il loro consumo da parte di ciascuno
non ne inibisce il consumo da
parte di altri, e sono beni non esclusivi
perché tutti possono accedervi senza
che sia necessaria la mediazione di
una qualche forma di proprietà. La proprietà
privata di un bene comune appare
quindi del tutto arbitraria; ma anche
la proprietà pubblica appare qui come
una forma giuridica non strettamente
necessaria, e l’intervento pubblico, in
questo caso, ha più che altro la funzione
di garantire dall’esterno le condizioni
di generale fruibilità del bene. Infine, la
stessa proprietà comune è una sorta di
“proprietà/non proprietà”, ed andrebbe
piuttosto definita come universale disponibilità.
Queste stringatissime annotazioni
possono già far comprendere
come la nozione di bene comune ci aiuti
a ridiscutere la nozione di proprietà
come dominio assoluto di un soggetto
su un oggetto, e quindi a porre razionalmente
il problema della gestione
delle condizioni essenziali della sussi3
stenza umana.
Ma quali sono, infine, i beni identificabili
come comuni? La definizione appena
proposta, a ben vedere, restringe notevolmente
il campo a casi di eccezionale
importanza, ma certamente limitati:
l’aria, l’acqua del mare, l’etere (e sempre
a condizione che i mutamenti tecnologici
non ne modifichino le condizioni
d’accesso). A questi si può peraltro
aggiungere, pur se con qualche cautela,
un particolare ed assai rilevante bene
“sociale”, ossia la conoscenza: nel
caso della conoscenza è evidente che
l’uso del bene da parte di ognuno non
solo non ne preclude l’uso altrui, ma
può addirittura potenziarlo; così come è
chiaro che in questo caso non è legittimata
nessuna “recinzione proprietaria”
e che l’opportuna proprietà pubblica
delle principali infrastrutture del sapere,
nonché la tutela pubblica dell’accesso
al web e del suo libero funzionamento,
se sono essenziali nel realizzare il carattere
non esclusivo del beneconoscenza,
non possono e non devono
comunque tradursi nella proprietà
del processo e dei risultati della conoscenza
stessa.
Detto ciò, comunque, il campo dei veri
e propri beni comuni è assai ristretto,
ed è soggetto a mutazioni temporali.
Prima di tutto va rilevato come la definizione
qui accolta escluda correttamente
dal novero dei beni comuni quelli
appartenenti a singole comunità, a singoli
gruppi di lavoratori o di cittadini:
questi sono piuttosto beni collettivi, beni
fruibili “universalmente” (ossia da tutti
gli individui, senza che nessuno di essi
possa monopolizzarli) ma solo
nell’ambito esclusivo della comunità o
del gruppo. Inoltre, e soprattutto, se è
vero che il bene comune è caratterizzato
anche dalla sua abbondanza è possibile
che questa venga meno col mutare
delle condizioni. I primi “commons”,
la cui espropriazione violenta coincise
con la nascita del capitalismo, consistevano
in terre e foreste un tempo
ampiamente disponibili, ed artificialmente
rese scarse dalle recinzioni forzate.
Ma oggi una simile sovrabbondanza
non è più riscontrabile, come
non è riscontrabile per l’acqua che, in
verità, non è mai stata universalmente
disponibile, tanto che è proprio per assicurarne
un uso razionale ed universale
che sorsero alcuni Stati.
Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che
molti degli elementi essenziali della
sussistenza non possono essere considerati
beni comuni, proprio perché
sono relativamente scarsi e facilmente
soggetti all’appropriazione privata. Ma
è proprio qui che interviene la nozione
di bene pubblico: è pubblico ogni bene
la cui universale fruibilità non è assicurata
da una caratteristica ontologica,
ma da una decisione politica che si traduce
in norme giuridiche che lo sottraggono
alla disponibilità privata ponendolo
sotto la tutela di forme pur diverse
di proprietà pubblica. L’intervento
del soggetto pubblico è, in questo caso,
essenziale e può e deve estendersi fino
a definire alcuni beni, considerati dalla
società come decisivi per la sussistenza
umana, come beni pubblici fondamentali,
tutelati da norme di rango costituzionale
che li rendano indisponibili
ai privati ed inderogabili dal pubblico
stesso.
3.
La grave crisi economica, sociale ed
ambientale che stiamo fronteggiando
non potrà essere risolta positivamente
finché i più importanti mezzi di produzione
e i più ingenti mezzi finanziari
non verranno anch’essi considerati come
beni pubblici fondamentali. Prima di
tutto perché i beni-capitale ed il denaro
sono in ultima analisi il prodotto del lavoro
sociale e della generale capacità
tecnico-scientifica della società; poi
perché essi sono alimentati in maniera
crescente, ed oggi decisiva, dai risparmi
dei lavoratori (fondi pensione, etc.) e
dai debiti pubblici; infine perché la
“macchina mondiale” industriale e finanziaria
è il ormai medium decisivo tra
umanità e natura, ed il suo controllo è
quindi inevitabile. La diffusione dell’idea
dei beni comuni è essenziale alla posizione
ed alla soluzione di questo enorme
problema, ma può d’altronde indur4
re ad eluderlo se l’attenzione è circoscritta
alle sole risorse naturali o se si
pensa che il carattere ormai apertamente
cooperativo (e quindi, come abitualmente
si ritiene, “comune”)
dell’attività umana renda superfluo il
tema della trasformazione dei benicapitale
in beni pubblici.
L’esempio più chiaro di questa ambivalenza
dell’idea è dato dalla nozione di
lavoro come bene comune. Idea decisiva
in quanto sostiene che il lavoro non
può essere ridotto a merce e che la sua
estrinsecazione deve avvenire in forme
libere e democratiche. Ma questa libera
estrinsecazione appare impossibile se
accanto alla rivendicazione del carattere
comune del lavoro non si pone quella
del carattere pubblico dei beni che
oggi costituiscono il capitale. Questa
necessità viene spesso sottaciuta, o
espressa in forme solo indirette ed allusive,
quando non viene esplicitamente
negata.
E’ il caso delle idee che sostengono
che, poiché la conoscenza è un bene
comune, e poiché d’altra parte il lavoro
è oggi essenzialmente conoscenza,
tutto il lavoro può già esprimersi in forme
immediatamente sociali, cooperative
e democratiche senza che sia necessaria
la riappropriazione pubblica
dei mezzi di produzione.
La conclusione è scorretta. E non solo
perché la qualità strategica del lavoro,
oggi, non è tanto la produzione di conoscenze,
quanto la capacità di ricostruire
le relazioni sociali che sono lacerate
dall’incertezza della produzione
contemporanea. Non solo, inoltre, perché
tali capacità relazionali non sono
immediatamente paritarie e “comuni”,
ma si svolgono sotto il segno di una
cooperazione strumentale in cui l’”altro”
è solo un mezzo per l’incremento della
produttività. Anche se il lavoro fosse
tutto riducibile alla cooperazione conoscitiva,
questo suo presunto carattere
comune sarebbe solo potenziale ed
astratto, sarebbe una caratteristica latente
del lavoro vivo, che (come la crisi
drammaticamente ci ricorda) può effettivamente
estrinsecarsi solo se si congiunge
al lavoro morto che esiste nei
mezzi di produzione (sia hardware che
software: anche un programma informatico
“condensa” a suo modo lavoro)
ed al denaro. Beni, questi ultimi, che
non sono affatto comuni, ma possono
divenire pubblici attraverso decisioni
politiche e norme universali che sanciscano
il loro passaggio alla proprietà
pubblica o ad un intreccio tra proprietà
pubblica e proprietà collettive regolate
e coordinate da norme universali.
4.
Sorge ovviamente il problema di evitare
che la proprietà pubblica si traduca nella
confisca del prodotto sociale da parte
di nuove oligarchie. E qui ci soccorre di
nuovo la nozione di bene comune, non
perché
questa possa essere estesa a tutti i beni,
ma perché relativizza tutti i concetti
di proprietà mostrando come di fronte
al sempre più stringente tema della
sussistenza umana, nessuna forma di
proprietà può più essere intesa come
dominio esclusivo di un soggetto su un
oggetto. Anche la proprietà pubblica,
quindi, nel momento stesso in cui viene
rivendicata, deve essere ridefinita in
almeno tre modi.
Prima di tutto con la già ricordata trasformazione
delle condizioni principali
della produzione in beni di rilevanza
costituzionale, non appropriabili dai privati
né utilizzabili dal pubblico in forme
privatistiche.
In secondo luogo integrando la proprietà
pubblica con altre forme di proprietà
che ne costituiscano un temperamento:
proprietà privata, cooperativa, collettiva
ed ovviamente “proprietà” comune. E
considerando il confine tra le diverse
forme di proprietà come mutevole in
funzione del modo di volta in volta più
efficace per garantire la sussistenza del
genere umano.
Infine, aprendo per legge tutte le forme
di proprietà, inclusa quella comune, al
controllo dei lavoratori e della cittadinanza.
Le imprese pubbliche, private e
cooperative di una certa dimensione
devono essere chiamate ad una stringente
responsabilità sociale, tutte le
forme proprietarie di rilevanza pubblica
5
devono essere soggette alla valutazione
informata da parte di coloro che ne
utilizzano i risultati e che comunque ne
subiscono le conseguenze. Anche la
proprietà comune, si diceva, perché
neanche essa è esente da effetti paradossali,
che possono consistere nella
sottoutilizzazione del bene, nella sua
cattiva gestione, nella degenerazione di
strutture o processi che, essendo “di
tutti”, rischiano di non essere curati da
nessuno.
L’idea dei beni comuni non deve dunque
liquidare, ma integrare e trasformare
l’idea della proprietà pubblica.
Altrimenti diviene inefficace rispetto ai
propri scopi e debole di fronte al problema
politico fondamentale della fase
attuale: quello di ridiscutere la proprietà
delle più importanti imprese finanziarie
ed industriali, condizione essenziale
per l’effettiva esigibilità dei diritti e per
la stessa trasformazione ambientale
dell’economia.
PROPOSTA PER IL DOPOVOTO
di Riccardo Petrella
S'è risvegliato, ha gridato, ha lottato
con grande passione e impegno, il popolo
dei beni comuni. Ci sono voluti
tanti anni, ma ce l'ha fatta. La grande
occasione che ha permesso agli italiani
di risentirsi cittadini degni di tale titolo è
stata data dall'acqua, dalla rivolta contro
la sua mercificazione. L'acqua è diventata
parte integrante dell'agenda
politica italiana da una decina d'anni. In
realtà, la sfida per l'acqua sinonimo di
vita e non merce, l'acqua come bene
comune pubblico su cui fondare la garanzia
del diritto umano alla vita per
tutti, covava nelle nostre società da una
trentina d'anni, da quando è cominciato
lo smantellamento dello Stato sociale,
del benessere, dei diritti.
L'acqua non è stata la sola occasione.
Il rigetto dell'arroganza della potenza
che pretende non solo di essere cieca
ma di avere la legittimità di restarlo anche
di fronte all'evidenza della violenza
intrinseca fatta dal nucleare alla vita, ha
giocato in favore dell'affermazione che
la vita è un bene comune inalienabile,
da proteggere e da promuovere. Last
but not least, il disprezzo dell'uguaglianza
di tutti i cittadini dinanzi alla
legge e lo sfrontato sostegno dato alla
prepotenza dei privilegi del potente
hanno fatto sì che i cittadini italiani abbiano
affermato con convinzione e forza
che l'uguaglianza nei diritti è il bene
comune pubblico fondamentale.
Il potente che si vuole al di sopra delle
leggi è indegno di rappresentare i cittadini,
deve essere bandito, dichiarato un
«fuori legge» e come tale giudicato. Gli
italiani possono rivendicare, di nuovo,
di essere un popolo degno, un popolo
di cittadini.
Gli anni che ci troviamo davanti devono
confermare questa rivoluzione. Dovranno
essere momenti, anche se difficili,
di profonde innovazioni. La prima,
la più immediata, è di natura psicologica
collettiva. Sentire gioia, sentirsi rincuorati,
è assolutamente indispensabile.
Quel che si è concretizzato nelle
ultime settimane merita entusiasmo.
Abbiamo sognato e ora possiamo pensare
che possediamo non solo l'opportunità
ma anche la volontà di realizzare
i nostri sogni.
Diventare costruttori d'utopia nel senso
di lavorare per costruire «un luogo
buono» (eu-topos, un mondo buono,
perché, per esempio, l'acqua è trattata
come bene comune pubblico e tutti devono
avere accesso all'acqua come
diritto) è la seconda innovazione, che ci
sposta sul piano della politica (della
polis), dell'agire politico. Bisogna sperare
che certi gruppi dirigenti non cantino
vittoria.
Ciò non solo sarebbe ingiusto dal punto
di vista della verità storica. Si tratterebbe
di un esproprio puramente predatorio.
Ma condurrebbe anche a far pensare
a milioni di coloro che hanno appoggiato
i referendum e sono diventati parte
del «popolo dei beni comuni» che i
problemi sono risolti e che si tratta solo
di cambiare i dirigenti del centrodestra
con quelli del centrosinistra. Sarebbe
un grave errore, un ennesimo travisamento
(se non tradimento) della volontà
6
dei cittadini ad opera dei dominanti.
Non possiamo limitarci a congegnare
delle nuove alleanze fra gli stessi. Diventare
costruttori di un mondo buono
in Italia comporta una modifica radicale
dell'ingegneria istituzionale sui beni
comuni e del modo di fare politica da
parte dei cittadini. Certo, si deve sapere
quali forze sociali, politiche, sono disponibili,
in che misura e a quali condizioni
sono pronte ad associarsi al fine
di permettere di realizzare gli obiettivi
sognati. Ma ricittadinare la città, reinventare
la res publica, non può consistere
in un rimescolio degli ingredienti
della stessa maionese.
A tal fine, terza innovazione, per far
ripartire la costruzione di una società
dei cittadini occorrerà trovare le modalità
per consentire loro di partecipare
direttamente alla costruzione della società
italiana dei prossimi anni. Questo
è possibile, non si tratta di una fantasia.
Gli Stati generali del governo dei beni
comuni dovrebbero essere il primo e
rapido atto costituente del «popolo dei
beni comuni». Concretamente questo
significa che la presidenza della Repubblica,
preso atto della volontà di
cambiamento espressa dai cittadini italiani
nel senso di un'applicazione più
rigorosa e ricca dei dettami della Costituzione
italiana, e valorizzando anche
lo spirito innovatore soggiacente alle
celebrazioni del 150° anniversario dalla
fondazione dello Stato italiano, potrebbe
convocare entro la fine dell'anno gli
Stati generali, con il compito di definire
e adottare la Carta costituente dei beni
comuni. Se la presidenza della Repubblica
non fosse disposta a farlo, il «popolo
dei beni comuni» dovrebbe procedere
di propria iniziativa, come ha dimostrato
di saper fare in questi ultimi
anni. Le idee, le analisi, le proposte, le
soluzioni, le esperienze concrete non
mancano, che si tratti della giustizia
sociale, della solidarietà, dell'energia,
dell'acqua, del lavoro, dell'educazione,
delle città, del rispetto degli altri. Si tratterà
di non lasciarle segmentate, frazionate,
escludenti. In una società realmente
democratica, partecipata, i lavori
degli Stati generali dei beni comuni
sarebbero presentati e discussi in una
sessione speciale con il parlamento
italiano e seguiti, obbligatoriamente,
dalla composizione di un nuovo governo.
A momenti di grande fermento innovatore
nella società occorre rispondere
con grandi momenti di innovazione
culturale politica e istituzionale.
UN VOTO COSTITUENTE
di Ugo Mattei
Si vota! Sembra incredibile ma siamo
riusciti a far esprimere il popolo sovrano
su questioni fondamentali per il nostro
futuro, senza la mediazione dei
partiti e delle burocrazie politiche. Siamo
riusciti ad aprire un dibattito serio
nel paese e a proporre politicamente
strumenti di azione ed un linguaggio
nuovo, quello dei beni comuni, che esce
dalle stanze degli addetti ai lavori.
Non è un traguardo da poco, né era
scontato che saremmo riusciti a raggiungerlo.
Un voto popolare per invertire
la rotta rispetto ad un modello di sviluppo
fondato sull'ideologia della privatizzazione
e su un rapporto fra l'interesse
pubblico e quello privato sempre più
spostato a favore di quest'ultimo, non
poteva che dar fastidio a molti. E i suoi
esiti possono essere politicamente dirompenti,
forse perfino costituenti di
una fase nuova finalmente capace di
superare in Italia il blocco del pensiero
unico che paralizza ogni possibilità di
uscita dalla crisi. Comunque, siamo
riusciti a fermare il folle banchetto nucleare
che pareva già imbandito quando,
poco più di un anno fa, si siglavano
gli accordi italo-francesi fra Edison ed
Edf. Questo pactum sceleris poteva
esser presentato, senza pudore, come
un passo verso la modernizzazione sulle
pagine dei giornali.
Adesso la Confindustria, che già aveva
l'acquolina in bocca per i ricchi trasferimenti
dal settore pubblico a quello
privato, si agita vieppiù nervosamente
perché rischia di veder sfumare anche
il business dell'acqua, dei trasporti e
della spazzatura. Infatti, se dovessimo
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vincere il referendum, organizzeremmo
la gestione dell'acqua in modo coerente
con la sua natura di bene comune: ne
affideremmo la gestione ad un settore
pubblico ristrutturato e democratico seguendo
una logica ecologica e di lungo
periodo. Troveremmo gli investimenti
per un grande di intervento pubblico sul
territorio, per ristrutturare le infrastrutture
e prevenirne il degrado. Creeremmo
così posti di lavoro garantiti come quelli
che, sembra un secolo fa, avevano i
cantonieri prima che Anas si trasformasse
in un una agenzia di gestione di
gare d'appalto.
Perché il privato dovrebbe investire sul
lungo periodo? Perché le gare dovrebbero
essere trasparenti e meritocratiche?
Perché non dovrebbero esserci
soldi pubblici per una riconversione ecologica
del nostro modello di sviluppo
mentre ci sono (200 milioni al mese)
per massacrare civili in Libia e Afghanistan,
in brutale violazione della Costituzione?
Porre queste domande non è stato facile.
Il governo ha iniziato inserendo addirittura
nel preambolo del decreto
Ronchi la grande menzogna per cui la
dismissione a favore del privato del
servizio idrico e degli altri servizi di interesse
economico generale (trasporti e
spazzatura) sarebbe stato obbligatoria
sul piano europeo e quindi non sottoponibile
a referendum. Questo argomento
è stato il mantra ripetuto dai nostri
oppositori (bipartisan) mentre noi
raccoglievamo milioni di firme e iniziavamo
un grande processo dal basso di
alfabetizzazione idrica, ecologica ed
istituzionale che, già da solo, ha reso
l'Italia un luogo migliore. Poi la Corte
Costituzionale ha accolto per due terzi
il nostro impianto referendario, sbugiardando
sul punto il governo, mettendo in
chiaro i limiti culturali dell'impostazione
dell'Avvocatura dello Stato, e riconoscendo
l'importanza anche giuridica
della nozione di beni comuni (poco dopo
la nozione è stata elaborata anche
dalle Sezioni Unite della Cassazione).
Da quel momento il governo avrebbe
dovuto divenire "amministrazione", rispettando
la Costituzione. Lungi dal
farlo, il governo ha innanzitutto dilapidato
350 milioni (di quel denaro pubblico
impossibile da trovare per riparare
gli acquedotti) rifiutando l' "election
day". Abbiamo puntualmente presentato
ricorso contro questa autentica vergogna,
ma né il Tar Lazio né la Corte
Costituzionale hanno avuto il coraggio
di opporvisi. Dal 4 aprile poi è scattata
la par condicio, che ha reso tabù la discussione
sui beni comuni mentre, nel
frattempo, la maggioranza faceva melina
in Commissione di Vigilanza per impedire
che si emanassero i decreti necessari
per assegnare gli spazi ai promotori.
Quando la terribile tragedia di Fukushima
rende impossibile non parlare di
questione nucleare, il governo, come
un bambino beccato dalla mamma con
le mani nella marmellata, mette a segno
l'autogol per far saltare i referendum.
Con l'approssimazione giuridica
che contraddistingue una maggioranza
che a furia di disprezzare la legge non
sa più utilizzarla, il decreto omnibus,
cerca di cancellare il voto sul nucleare.
Se per qualche settimana la confusione
prodotta nell'opinione pubblica è stata
totale, il tentativo di scippo goffo e maldestro
dell' ultimo minuto ha scatenato
nel corpo elettorale gli anticorpi dell'
indignazione. La nostra energia si è
moltiplicata, nuovi appoggi, fino a quel
momento impensati, sono arrivati alla
nostra compagine. Mentre il legame
culturale fra il nucleare e l'acqua, declinato
nella riflessione sui beni comuni
faceva crescere lo spessore politico
delle nostre analisi ed il significato del
referendum, il mondo cattolico, mobilitato
da quel grande campione di visione
politica di lungo periodo che è Alex
Zanotelli scendeva apertamente in
campo.
In questo scenario sociale i referendum,
con la rete di diverse decine di
migliaia di attivisti per gran parte estranei
ai partiti, paiono proprio il corrispondente
italiano delle primavere arabe
e degli indignados spagnoli. Fra poche
ore sapremo se il nostro disegno di
conferire forza politica costituente a un
grande ripensamento dei rapporti fra
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pubblico e privato attraverso lo strumento
dei quesiti referendari abrogativi
sui beni comuni, sarà condiviso dalla
maggioranza del popolo italiano. In caso
affermativo, l'avidità per l'oro blu avrà
sciacquato via, almeno in Italia, la
fine della storia ed il pensiero unico.
UNA VITTORIA CHE VIENE DA
LONTANO
di Stefano Rodotà
Tutto è cominciato poco più di un anno
fa, quando la raccolta delle sottoscrizioni
per i referendum sull´acqua come
bene comune s´impennò fino a raggiungere
il picco di un milione e quattrocentomila
firme, record nella storia
referendaria. Pochi si accorsero di quel
che stava accadendo. Molti liquidarono
quel fatto come una bizzarria di qualche
professore e di uno di quei gruppi
di "agitatori" che periodicamente compaiono
sulla scena pubblica. O lo considerarono
come un inciampo, un fastidio
di cui bisognava liberarsi. Basta dare
un´occhiata ai giornali di quei mesi.
E invece stava succedendo qualcosa di
nuovo. Il travolgente successo nella
raccolta delle firme era certamente il
frutto di un lavoro da tempo cominciato
da alcuni gruppi. In quel momento, però,
incontrava una società che cambiava
nel profondo, dove l´antipolitica cominciava
a rovesciarsi in una rinnovata
attenzione per la politica, per un´altra
politica. Ai referendum sull´acqua si
affiancarono quelli sul nucleare e sul
legittimo impedimento. Nasceva così
un´altra agenda politica, alla quale, di
nuovo, non veniva riservata
l´attenzione necessaria.
Mentre i referendari lavoravano per
blindare giuridicamente i quesiti e farli
dichiarare ammissibili dalla Corte costituzionale,
le dinamiche sociali trovavano
le loro strade, anzi le loro piazze. Sì,
le piazze, perché tra l´autunno e
l´inverno questi sono stati i luoghi dove
i cittadini hanno ritrovato la loro voce e
la loro presenza collettiva. Le donne, le
ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori,
il mondo della scuola e della cultura
hanno creato una lunga catena che univa
luoghi diversi, che si distendeva
nel tempo, che faceva crescere consenso
sociale intorno a temi veri, nei
quali si riconosceva un numero sempre
maggiore di persone - il lavoro, la conoscenza,
i beni comuni, i diritti fondamentali,
la dignità di tutti, il rifiuto del
mondo ridotto a merce.
Le piazze italiane prima di quelle che
simboleggiano il cambiamento nel nord
dell´Africa? Le reti sociali, Facebook e
Twitter come motori delle mobilitazioni
anche in Italia? Proprio questo è avvenuto,
segno evidente di un rinnovamento
dei modi della politica che non può
essere inteso con le categorie tradizionali,
che sfida le oligarchie, che rende
inservibile la discussione da talk show
televisivo. Forse è frettoloso parlare di
un nuovo soggetto politico per una realtà
frastagliata e mobile. Ma siamo sicuramente
al di là di quei "ceti medi riflessivi"
che segnarono un´altra stagione
della società civile. Di fronte a noi sta
un movimento che si dirama in tutta la
società, prensile, capace di costruire
una agenda politica e di imporla
Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni
rimanevano tenaci. Patetici
ci appaiono oggi i virtuosi appelli
contro il "movimentismo", provenienti
anche da persone e ambienti
dell´opposizione, che oggi dovrebbe
riflettere seriamente sulla realtà rivelata
dalle elezioni amministrative e dai referendum
invece di insistere nella ricerca
di categorie astratte - il centro, i moderati.
E se la maggioranza vuol cercare
le radici della sua sconfitta, deve cercarle
proprio nell´incapacità totale
d´intendere il cambiamento, con un
Presidente del consiglio che ci parlava
di piazze piene di fannulloni, una ministra
dell´Istruzione che non ha incontrato
neppure uno studente, una maggioranza
che pensava di domare il nuovo
con la prepotente disinformazione del
sistema televisivo.
Guardiamo alle novità, allora, e alle
prospettive e ai problemi che abbiamo
di fronte. Il voto di domenica e lunedì
ha restituito agli italiani un istituto fondamentale
della democrazia - il refe9
rendum, appunto. Ma ci dice anche che
bisogna eliminare due anomalie che
continuano a inquinarne il funzionamento.
È indispensabile riscrivere la
demagogica legge sul voto degli italiani
all´estero, fonte di distorsioni, se non di
vere e proprie manipolazione. È indispensabile
ridurre almeno il quorum per
la validità dei referendum. Pensato come
strumento per evitare che
l´abrogazione delle leggi finisse nelle
mani di minoranze non rappresentative,
il quorum ha finito con il divenire il
mezzo attraverso il quale si cerca di
utilizzare l´astensione per negare il diritto
dei cittadini di agire come "legislatore
negativo". Si svilisce così anche la
virtù del referendum come promotore di
discussione democratica su grandi
questioni di interesse comune.
Ma il punto cruciale è rappresentato dal
fatto che ai cittadini è stato chiesto di
esprimersi su temi veri, che liberano la
politica dallo sguardo corto, dal brevissimo
periodo, e la obbligano finalmente
a fare i conti con il futuro, con una idea
di società, con il rinnovamento delle
stesse categorie culturali. Un´altra agenda
politica, dunque, che dà evidenza
all´importanza dei principi, al rapporto
nuovo e diverso tra le persone e il
mondo che le circonda, all´uso dei beni
necessari a garantire i diritti fondamentali
di ognuno. La regressione culturale
sembra arrestata, il risultati delle amministrative
e dei referendum ci dicono
che un´altra cultura politica è possibile.
Il voto sul nucleare non ipoteca negativamente
il futuro dell´Italia. Al contrario,
impone finalmente una seria discussione
sul piano energetico, fino a ieri elusa
proprio attraverso la cortina fumogena
del ritorno alla costruzione di centrali
nucleari. Il voto sul legittimo impedimento
ci parla di legalità e di eguaglianza,
esattamente il contrario della
pratica politica di questi anni, fondata
sul privilegio e il rifiuto delle regole. Il
voto sull´acqua porta anche in Italia un
tema che percorre l´intero mondo, quello
dei beni comuni, e così parla di
un´altra idea di "pubblico". Proprio intorno
a quest´ultimo referendum si è
registrato il massimo di disinformazione
e di malafede. Si è ignorato quel che da
decenni la cultura giuridica e quella economica
mettono in evidenza, e cioè
che la qualificazione di un bene come
pubblico o privato non dipende
dall´etichetta che gli viene appiccicata,
ma da chi esercita il vero potere di gestione.
Si sono imbrogliate le carte per
quanto riguarda la gestione economica
del bene, identificandola con il profitto.
Si sono ignorate le dinamiche del controllo
diffuso, garanzia contro pratiche
clientelari, che possono essere sventate
proprio dalla presenza dei nuovi
soggetti collettivi emersi in questa fase.
Quell´agenda politica deve ora essere
attuata ed integrata. È tempo di mettere
mano ad una radicale riforma dei beni
pubblici, per la quale già esistono in
Parlamento proposte di legge. E bisogna
guardare ad altre piazze. Quelle
che affrontano il tema del lavoro partendo
dal reddito universale di base.
Quelle che ricordano che le persone
omosessuale attendono almeno il riconoscimento
delle loro unioni: un diritto
fondamentale affermato nel 2009 dalla
Corte costituzionale e che un Parlamento
distratto e inadempiente non ha
ancora tradotto in legge, com´è suo
dovere.
La fuga dai referendum non è riuscita.
Guai se, dopo un risultato così straordinario,
qualcuno pensasse ad una fuga
dai compiti e dalle responsabilità
che milioni di elettori hanno indicato
con assoluta chiarezza.
L'ACQUA FERMA L'ONDA LIBERISTA.
di Emilio Molinari
Il referendum sul nucleare ha tirato la volata,
ma quello sull'acqua ci ha messo
l'anima profonda del cambiamento. Ha
interrotto una lunga fase, non solo quella
di Berlusconi, ma quella del liberismo
senza limiti di Regan, del ritiro della politica
da ogni idea pubblica che ha contaminato
tutti.
Viene da lontano, è figlia dei Forum Sociali
Mondiali e di un lungo lavoro cultura10
le di 11 anni e di lotte, che hanno scavato
nelle coscienze dei cittadini, di dialogo
con la chiesa e di confronto-scontro coi
partiti.
Le privatizzazioni caratterizzeranno il dopo
referendum e il dopo Berlusconi. Ma
non si potrà ignorare che i cittadini hanno
detto: che il servizio idrico va gestito pubblicamente
e che vogliono partecipare
alla definizione delle scelte che si faranno,
sapendo che si scontreranno con destra
e sinistra, ma sopratutto con Confindustria,
Federutilty, multinazionali che
hanno ripetutamente detto che le privatizzazioni
devono stare al centro dell'iniziativa
di qualsiasi governo.
C'è in giro il timore di un nuovo “fantasma
che si aggira per il mondo”...Ed è il fantasma
della partecipazione che si fa soggetto
organizzato in reti nazionali ed internazionali,
capace di darsi obbiettivi a
tutti i livelli: dal fermare la mercificazione
dell'acqua potabile, all'affermazione del
diritto umano nelle istituzioni internazionali.
Che ha rivitalizzato come in Uruguay
e Berlino il referendum strumento della
sovranità popolare. Ha introdotto il linguaggio
dei beni comuni di cui oggi tutti
parlano. Che non divide i popoli, non demonizza
i partiti per trovare un proprio
consenso, ma cerca consenso tra la gente
per cambiare la cultura dei partiti e portarli
a battersi con noi come è avvenuto in
parte nei referendum.
Non ha chiesto: stai con Berlusconi o
contro? Ha detto a tutti: guardate al mondo
e ai suoi terribili problemi, sono anche
nostri. Ban Ky-Moon nel 2008 ebbe a dire
che siamo di fronte a una grande crisi
idrica mondiale ed a una grande crisi energetica
che si alimentano e provocano
altre crisi, compresa quella alimentare.
Volevamo parlare di questo. Chiedere:
perché l'accesso ai beni comuni indispensabili
alla vita e che scarseggiano,
deve essere regolato dal mercato?
Esiste ancora un interesse pubblico e una
fiscalità generale? L'acqua potabile è un
bene comune oppure per il fatto che occorrono
interventi industriali, la sua natura
diventa economica, il suo accesso diventa
individuale, regolato dal mercato?
L'acqua è un diritto umano o è solo un
bisogno individuale che si compera come
sostengono le multinazionali e i Forum
Mondiali dell'acqua partecipati da 160
governi?
Noi non abbiamo parlato di gratuità. Avremmo
voluto spiegare che vogliamo
garantire il diritto a tutti, a carico della fiscalità,
50 litri al giorno per persona come
sostiene l'OMS e dopo tale consumo una
tariffa progressiva sempre più cara per
garantire il risparmio.
Per paura ci hanno resi muti. Ha parlato
la politica, che trasversalmente volle le
privatizzazioni, e rancorosi economisti
senza anima che hanno ridotto tutto ad
una questione di fredda contabilità.
Il soggetto della partecipazione esiste.
Ora i partiti non sono i soli soggetti della
politica, ma anche i movimenti. Un protagonista
in più, che vuole incontrare con
pari dignità i partiti e le istituzioni, riproporre
la propria legge di iniziativa popolare
che il governo non volle discutere e
aprire il grande tema della costituzionalizzazione
dei beni comuni.
I referendum sull'acqua ci segnala un
cambiamento epocale il cui motore è stata
l'acqua. Prendetene atto e non parlate
sempre da contabili.
_________________________________
COSTRUIAMO UN MOVIMENTO PER LA
DIFESA DEI BEI COMUNI
FERMIAMO GLI AVVOLTOI

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