giovedì 8 marzo 2012

Di quanto socialismo ha bisogno un partito di sinistra?




10. Note critiche
Di quanto socialismo ha bisogno un partito di sinistra?


Ogni realtà è per prima cosa spazio
Fernand Braudel


Il quanto di socialismo può essere affidato alla evoluzione della grande crisi, al rivelamento progressivo dei suoi caratteri (dittatura dei mercati, svuotamento dei processi democratici, radicalizzazione dei comportamenti sociali ecc.) oppure a una scelta consapevole dei gruppi dirigenti, fino a superare il macroscopico paradosso attuale, dato dall’assenza di un movimento esplicitamente socialista ma dalla presenza della più grande crisi del capitalismo.

La ragione politica consiglia, secondo me, la seconda opzione; ma allora è necessario legare la scelta ad un confronto approfondito. La grande crisi, tra i tanti effetti negativi, ha anche un aspetto terapeutico positivo: riporta le questioni ai loro fondamenti e accelera tutte le dinamiche. E sulle  ragioni, che vengono da lontano, conviene ragionare, fare il “punto nave”, come gli antichi naviganti.
 In un grafico di fulminante potenza simbolica Pierluigi Ciocca, introducendo un suo lavoro [Il tempo della economia], fotografa il principale problema del nostro tempo: la linea che stima la crescita economica e la linea che stima l’eguaglianza sociale dell’ultimo secolo, negli ultimi decenni si divaricano progressivamente, e oggi viaggiano ormai in direzione opposta.
L’eguaglianza, per la sinistra socialista, non rappresenta un optional adattabile, ma la sua ragione d’essere, il suo imperativo, per dirla con Norberto Bobbio.
Franco Modigliani,in un grande studio,dimostra come una distribuzione egualitaria del reddito,sia condizione essenziale di uno sviluppo continuo e sostenuto.
Cogliere cause ed implicazioni-tecnologiche, produttive, sociali, politiche, culturali che presiedono e governano tale tendenza diventa essenziale ancor più quando si ragiona di un partito nuovo.
Nel suo grande affresco sull’oggi, Manuel Castells parla di una Terza Marca di capitalismo, il capitalismo informazionale, dopo il capitalismo del laissez-faire e il capitalismo keynesiano.
Nella sostanza, un nuovo modo di produrre - un nuovo paradigma tecno-economico - sta rivoluzionando i quadri temporali, spaziali, istituzionali, sociali di tutti i continenti.
Dopo Manchester (nascita della prima rivoluzione industriale), dopo Detroit (nascita del fordismo), la Silicon Vallej è diventata il centro di irradiazione della “nuova tempesta di distruzione creatrice”.
Siamo, secondo gli studiosi di scuola schumpeteriana, nel pieno del quinto ciclo di Kondratieff  (cotone, carbone, acciaio, petrolio, microprocessore).
Risorse di calcolo (computer) e di comunicazione (telefonia, reti di computer, internet), di potenza sempre maggiore e, a costi via via decrescenti, costituiscono la rete su cui scorre la transizione dal fordismo al nuovo modo di produrre; ma calcolo e comunicazione sono risorse la cui particolarità sta nel produrre organizzazione, alimentando relazioni, ordinando dati, creando significati.
Un modo di comunicare, è anche un modo di organizzare.
L’ultima rivoluzione della comunicazione (telegrafo, cavo sottomarino, telefono, ferrovia, radio, televisione, satellite, calcolatore etc.) decide del passaggio dall’età moderna all’età globale.
Le prime vittime, secondo un’antica regola, dell’onda d’urto sprigionata dal nuovo modo di produrre - un vero e proprio tsunami - sono proprio i sistemi più organizzati e strutturati: ciò vale sia per i sistemi di pensiero che per le realtà produttive o politico-istituzionali.
L’onda d’urto ha avuto un effetto micidiale sull’insieme del discorso strategico socialista; ad andare in pezzi sono stati soprattutto due pilastri:
 il lavoro come dimensione collettiva;
-       lo Stato-nazione come luogo storico e strumento principe delle politiche  di cittadinanza.
Nel linguaggio strategico, l’individualizzazione del lavoro configura un processo di destrutturazione dello spazio sociale, la globalizzazione dei mercati, specie dei capitali, con lo svuotamento dello Stato-nazione, configura una destrutturazione dello spazio politico.
L’effetto combinato della destrutturazione dei due pilastri sconvolge il triangolo Stato/nazione - democrazia politica/cittadinanza sociale - che ha rappresentato lo spazio politico, l’arena, all’interno della quale, in un secolare scontro/confronto - si è costruito l’edificio dei diritti sociali, ”stecche del corsetto” della cittadinanza democratica e, insieme, campo di forze del movimento socialista, principale artefice di tale processo.
Ragionare a fondo su tale spiazzamento strategico, mi sembra essenziale proprio perché una possibile controffensiva ha di fronte a sé due bivi non aggirabili: il primo bivio implica una scelta tra “Partito della territorialità” e” Partito della globalizzazione”, per usare la distinzione utilizzata dallo storico Charles Maier; il secondo bivio rimanda al principio guida che deve reggere le politiche sociali: meriti e bisogni (Claudio Martelli) oppure capacità (capabilities) e diritti? (Bruno Trentin).
All’inizio l’analisi va posta sulle nuove fratture sociali, perché come la frattura sociale è stata alla origine di tutte le versioni della sinistra del Novecento, così ad essa rimarrà legato il suo destino storico.
Anche oggi la sinistra quindi, non solo o è sociale o non è, ma la sua forza ed il suo destino si commisurerà in definitiva, a tale ragione originaria.
Quali sono le nuove faglie sociali, intrinseche al nuovo  modo di produrre? Chiederselo è imprescindibile, coglierne le linee di tendenza è essenziale, perché solo in questo modo è possibile fare i conti con l’affermarsi del nuovo paradigma tecnologico-produttivo.

a) Si diceva della destrutturazione dello spazio sociale
Nella suo grande opera sul capitalismo informazionale, la sistemazione forse più profonda sulla terza marca di capitalismo, Manuel Castells evidenzia come all’interno del nuovo modo di produrre emergano due grandi faglie sociali, fenomeni confermati anche da tante analisi di caso: la prima riferita al lavoro, la seconda alla condizione sociale.
Il lavoro sta vivendo una profondissima metamorfosi. Un primo aspetto riguarda il processo di individualizzazione, aspetto su cui si è concentrata particolarmente l’attenzione, cioè il passaggio dal lavoro-posto al lavoro-percorso; ma c’è anche un secondo aspetto, ancor più importante, la tendenza crescente alla sua interna polarizzazione: da una parte cioè una specie di riartigianalizzazione del lavoro, un lavoro Microsoft, dall’altra un lavoro generico, dequalificato, un lavoro McDonald.
Inoltre, il lavoro non solo si individualizza e si polarizza, ma subisce un’ulteriore trasformazione; perde parte della sua potenza e della sua capacità di integrazione sociale. In termini politico-sociali le implicazioni sono formidabili non solo perché proprio nel lavoro e con il lavoro si è realizzata la grande opera di integrazione sociale dell’era moderna, ma perché l’individualizzazione, ma soprattutto la polarizzazione del lavoro, spinge potentemente il lavoro stesso sulla china dell’autodifesa, se non della corporativizzazione.
Il nuovo modo di produrre permette, infatti, contemporaneamente sia l’integrazione del processo lavorativo, sia la disintegrazione della forza-lavoro.
Le tecnologie informatiche ed elettroniche - una volta si sarebbe detto l’uso capitalistico delle macchine-  rendono possibile la disintegrazione e la dispersione delle antiche comunità di lavoro.
Delocalizzazioni e ristrutturazioni diffondono insicurezza.
L’obsolescenza rapida dei saperi e dei mestieri genera erosione biografica. (Richard Sennet)
La seconda faglia si configura come un ritorno della vulnerabilità inedita e su larga scala, cioè l’emergere e l’estendersi del fenomeno definito esclusione sociale. In termini di struttura sociale, tempo fa si parlava della “società dei due terzi”. Una società ”industriale” che vedeva la gran parte dei suoi membri integrata verso l’alto, che si lasciava dietro però una fascia residuale di povertà, fascia non ancora pienamente coinvolta dal processo di sviluppo, che affrontata però con politiche opportune, sostanzialmente redistributive, lasciava intravedere la possibilità di un qualche riassorbimento.
Oggi, invece, alcuni parlano di società “dei quattro quinti” con un nucleo ristretto, collocato molto in alto in termini di occupazione e di reddito, circondato da una grande area di precarietà e di vulnerabilità che naviga faticosamente tra lavoro precario, occupazione intermittente, disoccupazione.
Altri ancora di società dei “tre terzi”: un terzo di “privilegiati”, un terzo di “deboli”, un terzo di “precari”.
Tutte le interpretazioni puntano ad evidenziare che la marginalità non indica tanto una area periferica in via di più o meno lento assorbimento, quanto il prodotto della “destabilizzazione degli stabili” per dirla con Manuel Castells, l’effetto a cascata cioè dell’onda della crisi del “centro” della società, in particolare del lavoro salariato.
Il senso del mutamento sociale in corso, configura una nuova questione sociale i cui elementi di fondo possono così riassumersi: drastica riduzione della mobilità sociale verso l’alto, destabilizzazione degli stabili, polarizzazione del lavoro e del sociale, perdita del potere di integrazione del lavoro.
Il tema della povertà, tema eminentemente economico e che rimanda a politiche distributive, si mescola e viene progressivamente sovrastato dal tema della esclusione sociale, tema eminentemente relazionale, che rinvia al la questione ben più complessa del legame sociale, della sua rottura e della sua ricostruzione.
L’imperativo strategico per la sinistra sta nella necessità di tenere insieme “deboli e precari”.
Ma tenere insieme deboli e precari significa una profonda innovazione teorica ed organizzativa: si tratta di fare i conti con i caratteri nuovi, sia della configurazione del lavoro, sia della configurazione sociale e tutto ciò in un contesto in cui le grandi migrazioni e l’insicurezza spingono alla etnicizzazione e alla corporativizzazione del conflitto sociale.
Significa sinteticamente una impresa politica che solo un nuovo “inquadramento culturale”, una profonda reinvenzione strategica ed organizzativa del campo di forze della sinistra -politica e sociale - possono rendere possibile.

b) Si diceva della destrutturazione dello spazio politico
Sostiene Jurgen Habermas che la questione oggi più importante è quella di sapere se la forza del capitalismo planetario - forza esplosiva in senso produttivo, sociale, culturale - possa essere ricondotta sotto controllo sul piano sopranazionale e globale, ossia al di là dei confini nazionali.
Tale possibilità decide nella sostanza del rapporto tra politica e mercato, se la politica “riguadagna terreno” rispetto agli automatismi del mercato, oppure se continua a svolgere solo una funzione ancillare; se, in definitiva, il capitalismo globalizzato possa essere “addomesticato” o semplicemente “smorzato”.
La costruzione di “Entità Statuali Continentali” diventa il banco di prova e insieme la condizione per innalzare ad una nuova scala la potenza della politica.
L’esaurimento dello Stato/nazione mette la sinistra di fronte ad un bivio: disarmo dello Stato sociale o riarmo dello Stato-nazione; o accettare una erosione degli standard pubblici di solidarietà sociale, oppure delineare un balzo in avanti per pensarsi e proporsi come forza propulsiva del nuovo Stato federale europeo, sia per garantire la difesa e l’avanzamento della strategia della cittadinanza democratica, sia per costruire una prospettiva di governo del processo di globalizzazione.
In un saggio recente, Massimo D’Alema sostiene che “un forte potere democratico sopranazionale non è mai stato assunto come carattere distintivo dai partiti socialisti europei”; la radice di tale orientamento sta probabilmente nell’errore di aver concepito la globalizzazione come interdipendenza invece che come “rottura di confini, come sconfinamento”, errore che non è stato certamente irrilevante per i partiti socialisti europei, quando, al governo in tredici stati su quindici, non hanno chiuso la partita della costruzione dello Stato federale europeo.
La globalizzazione, dal punto di vista sociale si è rivelata come polarizzazione tra ricchi globalizzati e poveri localizzati, dal punto di vista spaziale, come polarità tra locale e globale.
Per riportare “sotto controllo” la potenza del capitalismo planetario, forma dalla crisi più indurita nei suoi scopi, ma incomparabilmente più flessibile nei suoi mezzi delle forme precedenti, è indispensabile riordinare lo spazio politico, “rifissare i confini”.
Mentre la globalizzazione sembra dispiegarsi attraverso una doppia dinamica (mondializzazione dei mercati - riterritorializzazione degli interessi) una politica socialista dovrebbe separarsi rapidamente dallo Stato-nazione ed uscire dalla cattiva polarità locale-globale e identificarsi con il progetto dello Stato federale europeo.
Se infatti lo Stato-nazione strategicamente è una “trincea abbandonata”, la polarità locale-globale configura una doppia negatività, una dimensione locale sostanzialmente ininfluente, o peggio ancora uno scivolamento verso le piccole patrie, con una dimensione globale sostanzialmente inafferrabile.
Solo un “Partito socialista della globalizzazione” può proporsi di rideterminare una nuova spazialità politica come arena della contesa tra mercato e politica; può assumere lo Stato federale europeo come suo nuovo spazio politico; può, ad un tempo, ridare allo spazio locale la funzione di pietra angolare progressiva e, allo spazio europeo, la potenza necessaria per un controllo multipolare del processo di globalizzazione.

c) Si diceva della faglie sociali
Se le faglie sociali davvero fondamentali, intrinseche al nuovo modo di produrre sono rappresentate dalla scissione tra lavoro Microsoft e lavoro McDonald, da una parte, e dall’affermarsi dell’esclusione sociale dall’altra, il banco di prova per la sinistra socialista sarà rappresentato dalla sua rinnovata capacità di produzione e strutturazione del legame sociale.
In tale prospettiva, politiche neosocialiste come quelle derivabili dal filone teorico che va da Karl Polanj ad Amartya Sen possono risultare particolarmente fertili.
Il tema tocca tanto le politiche sociali che la forma Partito.
Se la struttura sociale postfordista presenta molte analogie con la struttura sociale prefordista, straordinaria importanza vengono ad assumere quelli che il miglior pensiero sociologico chiama i condensatori sociali, cioè istituti ed istituzioni che funzionino, ad un tempo, da argine versus l’atomizzazione sociale, da produttori di azione sociale e socialità collettiva.
Condensatori sociali vecchi e nuovi vanno pensati o riformati alla luce delle nuove faglie.
L’invenzione di nuovi istituti (Carta del lavoro alla Alain Supiot), la trasformazione e la riorganizzazione di istituzioni storiche come il sindacato e la cooperazione, “l’investimento in quella che Lester Salomon chiama “Rivoluzione Associativa”, lo sviluppo di un alto grande attore sociale come il “Movimento Consumerista”, lo sviluppo di grandi reti comunitarie e cooperative, rappresentano momenti essenziali della riformulazione del discorso strategico socialista.
L’etero direzione del mercato, la riattualizzazione continua della cittadinanza sociale e democratica rappresentano sempre il cuore della questione che un partito socialista europeo ha davanti, nella ridefinizione del suo profilo e del suo ruolo.
Concentrare l’analisi sui condensatori sociali vecchi e nuovi diventa oltremodo dirimente nella riformulazione di una strategia neosocialista per due ragioni di fondo; la prima politica, la seconda sociale: Mentre infatti l’impresa fordista, concentrando il lavoro concentrava allo stesso tempo la forza del suo interlocutore, l’impresa a rete, disperdendo il lavoro, lo rende più debole e vulnerabile modificando di per sé i rapporti di forza. In secondo luogo, l’emergere della grande faglia della esclusione sociale, cioè di un fenomeno principalmente relazionale.
Ma la risposta ad un fenomeno eminentemente relazionale non può esaurirsi in politiche redistributive, come verso la povertà, ma richiede la costruzione-ricostruzione delle cosiddette “Reti Primarie” di solidarietà, reti che la costruzione del Welfare classico ha sostanzialmente relegato ai margini (lo statalismo ha marciato di pari passo con l’individualismo).
Tale impresa dipenderà in definitiva, dalla capacità di riordinare il suo intero campo di forze.
Reinventare strategia ed organizzazione alla misura della “nuova marca” di capitalismo e delle nuove faglie sociali rappresenta per tutti gli “insiemi” che costituiscono la sinistra l’occasione per misurare le proprie forze e per sfuggire ad un destino da replicanti.
Il modello di partito socialista europeo a cui pensare, europeo perché l’Europa è la patria della politica, deve proporsi come centro motore di tale innovazione.
Per mettere mano a tale macchina politica bisogna però individuare bene il punto di crisi e il motore della ripresa di un partito della sinistra.
La mia convinzione è che l’autocombustione del partito politico, avvenuta in questi anni, può rappresentarsi nella separazione, segmentazione e spesso nella opposizione tra militanza politica in senso stretto, militanza sociale, militanza culturale.
Senza un lavoro di ricongiunzione (teorico, politico, organizzativo) tra queste tre dimensioni il partito politico perde inesorabilmente il connotato della trasformazione e acquisisce progressivamente quello della amministrazione, innescando un cortocircuito distruttivo tra strategia e struttura.
L’errore di fondo della idea di partito proposta al Lingotto ,cioè di un partito liberal mentre stava deflagrando la più grande crisi del capitalismo, sta nella assenza del Presente come Storia.
Pensare di sostituire al militante, all’iscritto, l’elettore o ancora di più il candidato, come sembra proporre Salvatore Vassallo, può sembrare una risposta, ma sposta soltanto in avanti il problema: solo il “partito socialista della globalizzazione” - che non può che essere il frutto di un lavoro profondo e pianificato -  capace di innervare un multiforme campo di forze, può reggere la sfida con la nuova marca di capitalismo ed affrontare, con probabilità di successo, i problemi nevralgici che Pierluigi Ciocca, plasticamente, ci indica con il suo diagramma e che la crisi attuale esaspera nei suoi elementi di fondo.
La legge antica del parallelogramma delle forze vale per le coalizioni, ma vale anche per i singoli partiti; come si sa, se i componenti tirano in direzioni diverse - dormono nello stesso letto ma non fanno gli stessi sogni, per dirla con Ciu En Lai - la risultante tende a zero.
Qui siamo.

20 febbraio 2012
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