Dopo il 15 ottobre. Il conflitto nell’epoca della ‘coesione sociale’
LA CROCIATA CONTRO LA
VIOLENZA,
IL COMPLOTTISMO
E L’INESISTENZA DI UNA
SINISTRA
di Marco Veruggio
Le vicende del 15 ottobre impongono una riflessione su alcuni temi che
purtroppo la sinistra italiana ha messo nello sgabuzzino da decenni, un
abbandono che non è privo di conseguenze su quanto è avvenuto in piazza a Roma.
Sono tre in particolare gli interrogativi messi all’ordine del giorno: 1. come
si analizzano i fatti, 2. come si analizza l’utilizzo mediatico dei fatti e
infine 3. come si governa e si protegge una manifestazione. Cerco di sviluppare
alcune riflessioni che nascono dall’osservazione in parte diretta degli
avvenimenti, dalla visione di foto e video e dalle dichiarazioni di alcuni
testimoni.
1. Che cosa è successo il 15
ottobre?
Una manifestazione nell’ordine delle centinaia di migliaia di persone
si snoda lungo le vie di Roma. Già a Termini è visibile almeno uno spezzone di
incappucciati. In Via Cavour dalle strade laterali o da dietro sbucano
drappelli dei cosiddetti black bloc
(utilizzerò questo termine sapendo che indica in modo impreciso un fenomeno
contraddittorio e per sua natura difficile da definire), di volta in volta sfasciano
vetrine e danno fuoco ad automobili incomprensibilmente lasciate sostare lungo
i marciapiedi. Aggrediscono giornalisti e manifestanti che protestano contro le
loro azioni, ma alcuni rischiano il linciaggio. Un dirigente di Rifondazione
afferma che alcuni di loro si sarebbero rifugiati dietro le linee della polizia
in via dei Serpenti. Il corteo a un certo punto viene spezzato in due. Una
parte prosegue verso San Giovanni, l’altra viene deviata verso il Circo
Massimo. I black bloc si uniscono al
primo spezzone e continuano a compiere le loro azioni. Vengono devastate o date
alle fiamme una caserma in Via Labicana, una filiale della Banca Popolare del
Lazio all’angolo tra via Manzoni e Via Merulana, un’agenzia interinale Manpower
sempre in Via Labicana, viene distrutta la famosa madonnina di San Marcellino,
tra Via Labicana e Via Merulana. Alcuni dei protagonisti di queste azioni non
hanno propriamente le phisique du rôle
del black bloc, ad esempio alcuni
cinquanta/sessantenni panciuti e con (pochi) capelli bianchi che vengono
fotografati prima in corteo senza maschera, poi, travisati, mentre fanno da
cordone protettivo durante l’assalto a una banca. C’è l’episodio del presunto
infiltrato che sarebbe invece un giornalista de Il Tempo. Dopo un po’ a chi sta
nell’altro spezzone di corteo arrivano notizie di pesanti scontri in Piazza San
Giovanni. Qual è il riflesso naturale per chi ha visto o sentito parlare di
vetri infranti e macchine bruciate? Pensare che anche lì sia successa la stessa
cosa. Dunque il 90% dei manifestanti, che a San Giovanni non ci arriveranno mai,
avranno la percezione che è tutto opera degli incappucciati. E’ un riflesso
naturale e ammetto in un primo momento di esserci cascato un anch’io.
Ma c’è una ricca documentazione che dimostra come a San Giovanni le
cose siano andate diversamente. Si vedano i video su youtube: Black
Bloc a Roma: la prima carica della polizia in Piazza San Giovanni
cariche
polizia piazza S. Giovanni - Roma 15.10.2011 ore 17.31
e la serie Roma – S. Giovanni
15-10-2011 p. 2/3
nei primi due si vedono idranti e furgoni irrompere alle spalle del
corteo ed entrarvi in profondità e la gente che comincia a scappare disordinatamente.
Nel terzo, la voce che commenta le immagini, pur accreditando la tesi dei black bloc infiltrati, riferisce che è
stata la polizia ad assaltare un corteo pacifico. Si vedano anche in sequenza
il video sul sito di Repubblica Manganellate
a ragazzo inerme la folla grida assassini
e su youtube Piazza San Giovanni
- Roma 15 ottobre 2011 - Scontri con le forze dell’ordine - Riots
In questo caso si vedono prima reparti dei carabinieri che avanzano e
aggrediscono un ragazzo inerme (appunto), successivamente la folla che reagisce
gridando ‘Assassini! Assassini! (si sentono in sottofondo le urla di ragazze
giovanissime) e rincorre i militari in fuga. A quel punto alcuni furgoni dei
carabinieri si avventano sui manifestanti e inizia un confronto che vede
protagonisti parecchie centinaia di ragazzi, mentre altri assistono alla scena
esultando quando i furgoni sono costretti a ritirarsi. A San Giovanni lo
scontro avviene tra manifestanti e forze dell’ordine. Non vengono danneggiati
edifici, negozi, auto, non risultano segnalazioni di strani personaggi, né
aggressioni da parte di incappucciati contro altri manifestanti o giornalisti.
A chi abbia un minimo di esperienza, risulta abbastanza evidente che
l’abbigliamento, l’atteggiamento e l’armamento di chi attacca polizia e
carabinieri è differente da quello dei commandos
di Via Cavour e Via Labicana. Molti manifestanti sono a volto scoperto, altri
hanno semplicemente un fazzoletto in faccia. Il ragazzo che lancia l’estintore
- passato agli onori della cronaca come er
pelliccia - si è coperto il volto con la maglietta restando a torso nudo e lasciando
scoperto un tatuaggio grazie al quale viene identificato. Non è esattamente un
comportamento da devastatore professionista addestrato militarmente in Grecia.
A questo fanno riscontro le immagini di poliziotti col volto coperto, che
tirano sampietrini, picchiano persone inermi, compiono evoluzioni in mezzo ai
manifestanti rischiando di travolgerne qualcuno (vedi
C’è un altro video interessante su youtube: indignati scontro black bloc e polizia : 15 ottobre : roma : video
Qui si vede come, partito l’attacco al corteo, la gente si allontani
dagli idranti e dai fumogeni mentre in direzione della polizia arrivino alla
spicciolata ragazzi coi caschi e alcuni col fazzoletto in faccia. Non è escluso
che tra questi ci sia anche qualche black
bloc (al minuto 1:16 sembra di vedere un ragazzo vestito di nero con una
spranga o un bastone in mano), ma perlopiù sembrano ragazzi ‘normali’. I black bloc si muovono in ‘reparti’
piccoli ma compatti e tendenzialmente - questa fu l’esperienza di Genova -
evitano il confronto diretto con la polizia. Dunque è ipotizzabile che l’arrivo
degli idranti e delle camionette abbia infiammato gli animi di alcune migliaia
di persone e fatto confluire verso quel punto della piazza settori più radicali,
magari anche organizzati, provocando un’escalation.
Si possono anche dare giudizi differenti su questa reazione, ma è un dato di
fatto che fino a San Giovanni la gente urli contro gli incappucciati e cerchi
anche di linciarne qualcuno. A San Giovanni gridano contro polizia e
carabinieri. Emblematica la testimonianza dello scrittore Leo Palmisano: Allora ecco che arrivano alla carica le
camionette, con ridicoli girotondi e gli idranti che bersagliano chiunque,
perfino la spianata, il prato della basilica, noncuranti di chi - come un uomo
in carrozzella - era lì per aderire all’indignazione che coinvolge l’intero
mondo occidentale. Siamo stati costretti a bendarci, a coprirci come guerriglieri
perché i loro lacrimogeni, lanciati a grappolo o ad altezza d’uomo - chi scrive
porta i segni di un colpo all’addome ricevuto per aver schermato un
diversamente abile - ci hanno impedito di respirare, di parlarci, di dirci
quanto fosse folle e diabolico quello che loro ci stavano facendo. Per cinque
volte nel fango, per cinque volte poi abbiamo ripreso la piazza. Abbiamo
applaudito a noi stessi, e non a loro, perché nessuna organizzazione sindacale
e nessun partito è venuto in nostro soccorso.
Dunque mentre la polizia afferma di non aver potuto intervenire contro
i black bloc per non mettere in
pericolo i ‘manifestanti pacifici’, le immagini dicono che a San Giovanni è
successo esattamente il contrario. La migliore documentazione di quanto
avvenuto nelle strade è costituita dai video pubblicati dal sito serviziopubblico.it,
la nuova web tv di Michele Santoro,
che ricapitola in modo organico quanto documentato in modo frammentario dai
video su youtube. A San Giovanni - commenta una delle inviate di Santoro - ‘il
gruppetto coi caschi diventa un popolo’. Le gente grida di tutto alla polizia:
‘Assassini! Dovete andare al Viminale a protestare! Guadagnate 1200 euro al
mese e venite a manganellare noi!’. Immagini di ragazzi e ragazze catturati e picchiati
dalla polizia e liberati dalla folla. Centinaia di persone vanno con le mani
alzate e a volto scoperto contro la polizia insultandoli e gridando
‘Andatevene!’ e che vengono presi a manganellate. I furgoni compiono le loro
evoluzioni in piazza speronando il camion dei COBAS e portando via un pezzo di
tettoia a un chiosco di kebab. In tutti i video che ho indicato i
commenti e gli insulti nei confronti delle forze dell’ordine ci parlano di migliaia
di persone che si sentono aggredite senza ragione. D’altra parte se si volevano
tutelare i ‘manifestanti pacifici’ perché la piazza è stata chiusa e il
Vicariato ha dovuto aprire i propri cancelli per dare una via di fuga a chi
voleva andarsene? La sensazione è che a Roma sia successo qualcosa di simile al
G8 genovese. I black bloc sono una
miccia, appaiono e scompaiono, in Piazza San Giovanni sembra si siano
volatilizzati, ma quando la polizia spinge i manifestanti fuori dalla piazza e
si torna nelle stradine si rivedono le auto in fiamme. Se anche a San Giovanni
si fossero semplicemente ‘diluiti’ nella folla rimane il fatto che una miccia
da sola non è sufficiente a scatenare un’esplosione.
2. Come interpretare i fatti?
Quando una folla si muove sotto la spinta di fatti così concitati e
drammatici emergono forze e pulsioni irrazionali che travalicano le volontà dei
singoli e d’altra parte le strategie di piazza dei soggetti organizzati si
sommano o si scontrano tra loro in modo non lineare, per cui di solito la
risultante non corrisponde mai pienamente a ciò che ciascuno di essi aveva pianificato.
E’ il fenomeno che Clausewitz, a proposito della guerra, definiva ‘attrito’ o ‘nebbia’.
Dunque bisogna evitare di considerare tutto come il semplice effetto di un
piano razionale deciso a tavolino. In campo vi sono una pluralità di soggetti
con interessi diversi e spesso al loro interno vi sono articolazioni differenti.
Lo Stato non è un monolite, ma un insieme di apparati - potere politico, magistratura,
forze dell’ordine - all’interno dei quali spesso si sviluppano ulteriori
contraddizioni. Dunque la situazione è estremamente ingarbugliata, ma alcuni
strumenti per cercare di analizzare fatti come questi esistono. A me sembra che
un metodo vecchio ma tutto sommato funzionante sia chiedersi a chi giova quello
che è successo. Il Governo ne ricava un beneficio, perché, se tutto fosse andato
bene, la manifestazione sarebbe stata presentata in tutto il mondo come una
gigantesca dimostrazione popolare contro Berlusconi e si sarebbe conclusa con
una serie di comizi indirizzati in massima parte contro di lui. L’opposizione
parlamentare tutto sommato non ne esce male, perché ormai, col vento di
Standard & Poor’s che gonfia le vele, qualsiasi cosa accada si può sempre
dire che è colpa di Berlusconi. E d’altra parte un bel pezzo del corteo non era
propriamente amico neanche del centrosinistra. I vertici di polizia e
carabinieri hanno una buona occasione per denunciare i tagli di cui sono
vittima (a Roma sono stati usati candelotti di gas scaduti 5 anni fa, come
documentato da Repubblica) e qualche magistrato ‘progressista’ può affermare
che le intercettazioni telefoniche servono anche per contrastare i black bloc. Di Pietro, che venerdì 14
diceva ‘Via Berlusconi, prima che scoppi la violenza’, domenica 16 chiede leggi
speciali contro la violenza, come negli anni ‘70. Tuttavia tutti questi sono interessi
di parte che poco contano rispetto alla superiore esigenza di spaccare al suo
interno un movimento di contestazione che sta assumendo connotati e slogan
magari inconsapevolmente antisistemici, un’articolazione internazionale e una
forza tali da renderlo pericoloso. D’altra parte come spiegare che Draghi sia
arrivato a dichiarare che ‘i giovani hanno ragione di avercela con la finanza’?
Si può pensare che il capo di Bankitalia abbia commesso una gaffe così colossale, sdoganando una
manifestazione che si preannunciava ‘movimentata’? No, evidentemente il vero messaggio
era ‘qualunque cosa accada, nel movimento ci sono i buoni’. Naturalmente
perché ci siano i buoni ci vogliono necessariamente anche i cattivi. Che settori
all’interno dell’establishment abbiano
cercato di mettere in rete un assist
così invitante come quello fornito da una manifestazione totalmente priva di
protezioni, mi sembra fosse del tutto prevedibile.
D’altra parte ridurre i black bloc
a mero strumento dello Stato controllato attraverso l’infiltrazione di
poliziotti o neofascisti è altrettanto inverosimile. I black bloc - continuo a utilizzare questa formula imprecisa per
semplice comodità - sono il prodotto autentico di una società in cui è sempre
più difficile trovare vie d’uscita individuali, ma viene a mancare anche una prospettiva
di emancipazione collettiva. Situazioni analoghe si ripetono nella storia è spesso
sfociano in un nichilismo per cui distruggere una banca o una caserma (o le
macchine industriali, come facevano i luddisti) è un modo per esprimere la
propria rabbia individuale contro il sistema e se a farne le spese è un
disgraziato che deve pagare ancora 40 rate e si trova l’auto sotto casa
bruciata, peggio per lui. D’altra parte è chiaro che tutto questo si coagula in
un’area politica talmente informale che è soggetta a infiltrazioni di ogni tipo
e che può contenere anche soggetti che si dicono contrari a questi metodi (vedi
la lettera firmata ‘quello che chiamate il blocco nero’, pubblicata nei giorni
scorsi su internet
Non avendo sedi di discussione formale, che sarebbero considerate
‘burocratiche’, in cui discutere eventuali divergenze, ma soltanto i forum su
internet, alla fine ciascuno va in piazza e fa quel che vuole. In questa
situazione vi può essere una oggettiva convergenza tra queste frange e gli
interessi di settori interni allo Stato, anche senza che tale convergenza sia
percepita dai primi come tale o che vi siano degli accordi tra le parti. Semplicemente
pezzi di apparati politici, economici, repressivi possono inserirsi nelle
pieghe di questa oggettiva convergenza per provare a dirigerla e trarne
vantaggio. Non sarebbe una novità, ma la conferma di una prassi comune
consolidatasi nella storia e che qualcuno forse - chissà su quale base -
considerava un ricordo del passato. D’altra parte esiste un fenomeno più
generale di rabbia e di disperazione sociale, come emerge ad esempio
nell’intervista, apparsa sempre su serviziopubblico.it, a un quindicenne
protagonista degli scontri e travolto da un blindato, che dichiara di essere
mosso anche dalla consapevolezza di non avere un futuro, la possibilità di un
lavoro, di una pensione. Non capire che i confini di questo fenomeno sono ben
più ampi di quelli del ‘blocco nero’ significa essere imbecilli o in mala fede.
Così è evidente che chi si scontra con la polizia allo stadio tutte le
domeniche spesso utilizza la fede calcistica come la ‘giustificazione
ideologica’ di un malcontento che spesso ha radici altrove. La rabbia sociale
come l’acqua di una falda sotterranea, spesso esce fuori utilizzando i canali e
i buchi che trova sul proprio cammino, non costruendo acquedotti.
Qualche giorno fa sono apparse sul Corriere alcune ‘rivelazioni’ su un
presunto patto di gestione della manifestazione del 15 ottobre tra Nichi
Vendola e gli ex disobbedienti Casarini e Raparelli (già Uniti contro la crisi,
oggi Uniti per l’Alternativa). Il primo avrebbe garantito l’elezione nelle
liste di SEL in cambio di una gestione pacifica della manifestazione, con
l’impegno di non violare la zona rossa dei palazzi del potere, come le
organizzazioni più radicali volevano fare. Anche in questo caso l’impostazione
complottistica, con tanto di sensali e luoghi dove sarebbe stata siglata
l’intesa, risulta un po’ ridicola. Chiunque segua le vicende del dibattito
politico sa bene che si sta già discutendo di seggi parlamentari per i ‘rappresentanti
del movimento’. Qualche settimana fa, all’assemblea costitutiva di Uniti per
l’Alternativa, Casarini nel suo intervento (il video è sul sito di
Globalproject) - parlando di sé in terza persona come Giulio Cesare nel De Bello Gallico - diceva che ‘il
problema non è se ‘Casarini e Raparelli hanno un posto nelle liste di Vendola e
di De Magistris’, ma il movimento, la crisi, le lotte ecc. Tradotto dal
movimentese in italiano significa che Casarini e Raparelli, dopo lunga gavetta,
stanno cercando di emulare Agnoletto e Caruso e di provare la meritata ebbrezza
di Montecitorio. Chiunque capisce altrettanto bene che - anche senza accordi
orali, scritti, depositati dal notaio o sigillati col sangue o con la cera
lacca - spaccare vetrine e/o essere coinvolti in scontri di piazza e stare
nelle liste di SEL o del costruendo partito di De Magistris sono cose che sotto
la cappa della ‘coesione nazionale’ non si possono più fare.
3. La campagna stampa sulla
violenza
Nel suo Manuale di studi
strategici (2004) scrive il generale ex piduista Carlo Jean a proposito del
giornalismo di guerra: ‘Qualsiasi restrizione o censura suscita sospetti (…) La
soluzione di solito adottata, dopo aver fatto appello alla serietà dei
giornalisti e alla loro consapevolezza della necessità di autocensura qualora
venissero a conoscenza di particolari delicati, è quella di saturare i media
con una grande quantità di informazioni, così da annacquare i particolari che
debbono essere mantenuti riservati entro un gran numero di notizie e in modo da
non suscitare sospetti, speculazioni e critiche, che potrebbero facilmente
spiralizzarsi’. La campagna stampa costruita sul corteo del 15 ottobre è stata
costruita secondo questa tecnica, ma anche sulla base del famoso aforisma di
Goebbels ‘Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una
verità’ e dovrebbe far riflettere tutti coloro che a sinistra ci presentano i
giornalisti come argini alla deriva ‘totalitaria’ rappresentata da Berlusconi.
Da Repubblica al Giornale il messaggio che viene veicolato è che tutti dobbiamo
mobilitarci contro la violenza, una violenza che non viene analizzata né
spiegata, ma evocata come un fatto metafisico e pervasivo, da cui anche i buoni
si devono guardare perché potrebbero esserne contagiati senza rendersene conto.
Una violenza che va combattuta anche con una campagna di delazione di massa
combattuta su internet a colpi di istantanee. Una foto del sottoscritto mentre
spacca la legna per la stufa davanti a casa, presa dalla giusta angolazione,
potrebbe esporlo al pubblico ludibrio come uno degli autori delle devastazioni.
Una felpa scura diventa parte di un arsenale, uno che va in manifestazione con
la maschera antigas o un fazzoletto sulla faccia per proteggersi da un gas
vietato dalla convenzione di Ginevra è un violento. Tra un po’ per entrare da
Decathlon potrebbe volerci il porto d’armi o l’autorizzazione dei genitori. Che
vi siano furgoni della polizia che fanno lo slalom in mezzo alla folla, poliziotti
che scagliano pietre contro i manifestanti, picchiano persone inermi e stese a
terra, ciò non viene nascosto. Sul sito di Repubblica vengono pubblicati video
intitolati Carabiniere colpisce
manifestante inerme, Manganellate a
ragazzo inerme la folla grida assassini, Poliziotto lancia un sampietrino verso i manifestanti. E’ un modo
per dimostrare che la stampa è imparziale. Non si nascondono gli abusi della
polizia. Si mostrano ma li si affoga dentro un mare di immagini dei manifestanti
violenti, mentre quelli che hanno votato i bombardamenti in Libia pontificano
che bisogna distinguere i buoni dai cattivi. Se una bomba su Tripoli fa cento
volte i danni del 15 ottobre a Roma per la ‘stampa democratica’ non è argomento
che meriti non dico un editoriale, ma neanche una sola riga.
Repubblica poi compie un capolavoro pubblicando l’intervista a un
black bloc. Ve lo immaginate uno che chiama la redazione di Repubblica e dice
‘pronto, sono un black bloc, vorrei rilasciare alcune dichiarazioni’? Trentenne
pugliese, laureato, precario spiega dispiegamento e tattica, viaggi di
addestramento in Grecia come se parlasse a nome del comitato centrale dell’Al
Qaida nerovestita, come un moderno ninja insurrezionalista. E alla fine - come
una ciliegina - ci spiega che lui ‘non parla di politica coi giornalisti’ (però
si fa intervistare), che parla ‘coi compagni della Val di Susa’, che a luglio
lui c’era e che ‘non è finita’. D’altra parte uno dei due autori
dell’intervista, Carlo Bonini, il giorno prima, sempre su Repubblica, aveva
buttato lì che - secondo imprecisate voci - a sfasciare tutto c’erano
‘addirittura operai di Pomigliano o almeno così dicevano di essere’. La sera
stessa della pubblicazione TG3 e Canale 5 presentano una ricostruzione dei fatti
che è la fotocopia dell’intervista di Repubblica senza citare la fonte. Bianca
Berlinguer spiega che ci potrebbero essere infiltrazioni anche nella
manifestazioni della FIOM. La mattina dopo le agenzie battono la notizia che
Alemanno ha vietato il corteo dei lavoratori FIAT e Fincantieri fissato per il
21 ottobre. Qualche giorno dopo i vertici del PD piemontese chiedono di vietare
la manifestazione No TAV del 23 ottobre (mentre Cotà dirà che va garantita la
libertà d manifestare...). Ciò che colpisce è che - tranne alcune lodevoli
eccezioni - anche la stampa ‘alternativa’, Manifesto in testa, si è di fatto
accodata alla versione ufficiale.
L’episodio dell’infiltrato/giornalista è una cartina di tornasole dei
meccanismi della comunicazione giornalistica. Premetto che non mi interessa
‘risolvere il mistero’. Si tratta di un episodio, che può avere spiegazioni
differenti e comunque non incide più di tanto sull’interpretazione complessiva
degli avvenimenti. Se anche provassimo che c’è stata un’infiltrazione sarebbe
la scoperta dell’acqua calda. Mi interessa invece ragionare su come funziona l’informazione.
Il sito di Repubblica pubblica le immagini di uno strano personaggio che se ne
sta tranquillamente appoggiato con le spalle al muro di un edificio, mentre a
un metro da lui alcuni ‘neri’ sfasciano la vetrina di una banca. ‘Chi è?’
chiede Repubblica e si apre la caccia all’infiltrato. Poco dopo compare
un’altra foto che ritrae lo stesso personaggio in mezzo a un drappello di
carabinieri. Sembra la conferma che si tratta di un agente che ‘faceva il palo’
mentre veniva sfasciata la banca. Qualche giorno dopo la smentita. Un cronista
di nera de Il Tempo, Fabio Di Chio, rilascia un’intervista al proprio giornale
dicendo ‘Ero io’. Il caso viene archiviato come una delle tante bufale che
compaiono su internet. Può essere che sia così, ma mi interessa analizzare i
sillogismi che regolano la comunicazione di massa. Primo: Di Chio è un
giornalista, dunque non è un infiltrato. Con questo si cancellano quarant’anni
di storia italiana, da Mino Pecorelli, invischiato in tutti i più torbidi
affari del sottobosco romano e ricattatore professionista, a Maurizio Costanzo,
iscritto nelle liste della P2, fino al più recente Renato ‘Betulla’ Farina, ex
vicedirettore di Libero e autore di dossier diffamatori per conto del SISMI.
Secondo: per rendere conto dello strano (e rischioso) punto di osservazione da
cui ha scelto di godersi la scena dell’attacco alla banca, Di Chio spiega: ‘Sono
arrivato alle due e mi sono messo vicino a una banca. Diremmo "obiettivo
sensibile". Scelta azzeccata. Infatti dopo un po' sono arrivati quei
ragazzetti che hanno cominciato a sfasciare tutto’. In pratica un giornalista
prima ancora che la manifestazione parta si mette a casaccio davanti a una
banca e aspetta per ore che qualcuno la devasti. Tra le decine di sportelli
presenti lungo il percorso della manifestazione e nelle zone interessate dalle
devastazioni ha la fortuna di essersi appostato proprio davanti a uno di quelli
che vengono distrutti. Evidentemente stanco per la lunga attesa non ha la forza
di cambiare posizione e rimane appoggiato con la schiena al muro a rischio di
farsi venire il torcicollo. Fatica sprecata visto che non sono riuscito a
trovare un solo articolo di Di Chio sulla manifestazione del 15.
4. La gestione di una
manifestazione e l’uso della forza
La necessità di rispondere a una campagna di disinformazione di massa
non è in contraddizione con quella di discutere nel movimento e nelle
organizzazioni della sinistra come si gestisce una manifestazione. Il 15
ottobre abbiamo assistito a due differenti fenomeni: da una parte l’utilizzo
strumentale del corteo da parte di alcune frange politiche come palcoscenico
per una serie di azioni simboliche non concordate e non condivise dalla
stragrande maggioranza dei manifestanti. Dall’altra la reazione di uno spezzone
minoritario ma significativo dello spezzone arrivato a San Giovanni a una
provocazione. In entrambe i casi ciò che salta agli occhi è la mancanza di
controllo del comitato promotore, della politica e delle grandi organizzazioni,
sulla manifestazione che avevano organizzato e, a San Giovanni, la loro totale assenza.
Ovviamente vi sono ragioni oggettive, la crisi di rappresentanza produce anche
questi effetti, ma non è sufficiente a cancellare le responsabilità soggettive. L’utilizzo del corteo da parte di
terzi poteva essere evitato e la situazione in piazza San Giovanni poteva
essere governata. In una manifestazione confluiscono organizzazioni, livelli di
coscienza e di radicalità, culture e storie diverse. Gli organizzatori hanno il
compito da una parte di selezionare chi sta nel perimetro della manifestazione,
perché sono loro a doverne rispondere e dall’altra di trovare una sintesi
praticabile tra le diverse anime. Invece, a partire da Genova e sotto la foglia
di fico della non violenza si è mascherata l’idea che si va in piazza alla
garibaldina e se qualcosa va male la colpa è sempre di qualcun altro.
Qualsiasi ordinamento democratico riconosce la legittimità del diritto
all’autodifesa e a nessuno si può chiedere di farsi pestare senza ragione, come
il è successo perfino ai manifestanti che a San Giovanni hanno affrontato la
polizia con le mani alzate. Allo stesso tempo l’autodifesa implica l’utilizzo
della forza, che è uno strumento pericoloso e quindi va gestito e dosato in
modo saggio. Si può discutere quale utilizzo della forza sia stato fatto a San
Giovanni, cercando di tener conto che una cosa è analizzare le situazioni e
un’altra è trovarcisi dentro. In ogni caso il problema non è quello che è
successo il 15 ottobre, ma quello che succederà la prossima volta. C’è chi
mette in guardia dai servizi d’ordine, citando gli anni ’70, il terrorismo il
pericolo di creare schegge impazzite. Ma chi degli anni ’70 ha conservato un ricordo
dovrebbe sapere che anche lasciare che la gente venga pestata rischia di far
perdere il controllo della situazione. D’altra parte la manifestazione del 23
in Val di Susa dimostra - a mio avviso - che una manifestazione può essere governata
e che quando i promotori sono molto autorevoli e dicono prima chiaramente che
cosa non sono disponibili a tollerare, può anche non essere necessario avere un
servizio d’ordine schierato militarmente.
Le organizzazioni e i partiti della sinistra dovrebbero servire anche ad
analizzare fatti e situazioni come queste, a cercare di interpretarle e a
fornire delle risposte ai problemi, anzi soprattutto a questo. Tanto più che il
15 ottobre rischia di essere ricordato - a differenza di Genova 2011, che non
ebbe un seguito - come un laboratorio del conflitto sociale e dell’ordine
pubblico nell’epoca della ‘coesione sociale’. Invece ancora una volta la
sinistra ha dato prova di vivere in una sfera separata, in un mondo in cui il
futuro di Casarini e Raparelli conta più di quello della gente che era in
piazza a prendersi le bastonate e a respirare i lacrimogeni scaduti. Le parole
di Palmisano fotografano perfettamente la situazione: Abbiamo applaudito a noi stessi, e non a loro, perché nessuna
organizzazione sindacale e nessun partito è venuto in nostro soccorso. Tuttavia
questa può essere l’occasione per iniziare una discussione costituente su che
tipo di sinistra vogliamo. Io vorrei una sinistra che - invece di starsene in
fondo - stia in prima fila, cercando di capire, agire, tirare le somme e fare
delle proposte.
Nessun commento:
Posta un commento