martedì 25 ottobre 2011

Dopo il 15 ottobre. Il conflitto nell’epoca della ‘coesione sociale’



Dopo il 15 ottobre. Il conflitto nell’epoca della ‘coesione sociale’
LA CROCIATA CONTRO LA VIOLENZA,
IL COMPLOTTISMO
E L’INESISTENZA DI UNA SINISTRA

di Marco Veruggio

Le vicende del 15 ottobre impongono una riflessione su alcuni temi che purtroppo la sinistra italiana ha messo nello sgabuzzino da decenni, un abbandono che non è privo di conseguenze su quanto è avvenuto in piazza a Roma. Sono tre in particolare gli interrogativi messi all’ordine del giorno: 1. come si analizzano i fatti, 2. come si analizza l’utilizzo mediatico dei fatti e infine 3. come si governa e si protegge una manifestazione. Cerco di sviluppare alcune riflessioni che nascono dall’osservazione in parte diretta degli avvenimenti, dalla visione di foto e video e dalle dichiarazioni di alcuni testimoni.

1. Che cosa è successo il 15 ottobre?

Una manifestazione nell’ordine delle centinaia di migliaia di persone si snoda lungo le vie di Roma. Già a Termini è visibile almeno uno spezzone di incappucciati. In Via Cavour dalle strade laterali o da dietro sbucano drappelli dei cosiddetti black bloc (utilizzerò questo termine sapendo che indica in modo impreciso un fenomeno contraddittorio e per sua natura difficile da definire), di volta in volta sfasciano vetrine e danno fuoco ad automobili incomprensibilmente lasciate sostare lungo i marciapiedi. Aggrediscono giornalisti e manifestanti che protestano contro le loro azioni, ma alcuni rischiano il linciaggio. Un dirigente di Rifondazione afferma che alcuni di loro si sarebbero rifugiati dietro le linee della polizia in via dei Serpenti. Il corteo a un certo punto viene spezzato in due. Una parte prosegue verso San Giovanni, l’altra viene deviata verso il Circo Massimo. I black bloc si uniscono al primo spezzone e continuano a compiere le loro azioni. Vengono devastate o date alle fiamme una caserma in Via Labicana, una filiale della Banca Popolare del Lazio all’angolo tra via Manzoni e Via Merulana, un’agenzia interinale Manpower sempre in Via Labicana, viene distrutta la famosa madonnina di San Marcellino, tra Via Labicana e Via Merulana. Alcuni dei protagonisti di queste azioni non hanno propriamente le phisique du rôle del black bloc, ad esempio alcuni cinquanta/sessantenni panciuti e con (pochi) capelli bianchi che vengono fotografati prima in corteo senza maschera, poi, travisati, mentre fanno da cordone protettivo durante l’assalto a una banca. C’è l’episodio del presunto infiltrato che sarebbe invece un giornalista de Il Tempo. Dopo un po’ a chi sta nell’altro spezzone di corteo arrivano notizie di pesanti scontri in Piazza San Giovanni. Qual è il riflesso naturale per chi ha visto o sentito parlare di vetri infranti e macchine bruciate? Pensare che anche lì sia successa la stessa cosa. Dunque il 90% dei manifestanti, che a San Giovanni non ci arriveranno mai, avranno la percezione che è tutto opera degli incappucciati. E’ un riflesso naturale e ammetto in un primo momento di esserci cascato un anch’io.

Ma c’è una ricca documentazione che dimostra come a San Giovanni le cose siano andate diversamente. Si vedano i video su youtube:  Black Bloc a Roma: la prima carica della polizia in Piazza San Giovanni

cariche polizia piazza S. Giovanni - Roma 15.10.2011 ore 17.31

e la serie Roma – S. Giovanni 15-10-2011 p. 2/3
nei primi due si vedono idranti e furgoni irrompere alle spalle del corteo ed entrarvi in profondità e la gente che comincia a scappare disordinatamente. Nel terzo, la voce che commenta le immagini, pur accreditando la tesi dei black bloc infiltrati, riferisce che è stata la polizia ad assaltare un corteo pacifico. Si vedano anche in sequenza il video sul sito di Repubblica Manganellate a ragazzo inerme la folla grida assassini
e su youtube Piazza San Giovanni - Roma 15 ottobre 2011 - Scontri con le forze dell’ordine - Riots
In questo caso si vedono prima reparti dei carabinieri che avanzano e aggrediscono un ragazzo inerme (appunto), successivamente la folla che reagisce gridando ‘Assassini! Assassini! (si sentono in sottofondo le urla di ragazze giovanissime) e rincorre i militari in fuga. A quel punto alcuni furgoni dei carabinieri si avventano sui manifestanti e inizia un confronto che vede protagonisti parecchie centinaia di ragazzi, mentre altri assistono alla scena esultando quando i furgoni sono costretti a ritirarsi. A San Giovanni lo scontro avviene tra manifestanti e forze dell’ordine. Non vengono danneggiati edifici, negozi, auto, non risultano segnalazioni di strani personaggi, né aggressioni da parte di incappucciati contro altri manifestanti o giornalisti. A chi abbia un minimo di esperienza, risulta abbastanza evidente che l’abbigliamento, l’atteggiamento e l’armamento di chi attacca polizia e carabinieri è differente da quello dei commandos di Via Cavour e Via Labicana. Molti manifestanti sono a volto scoperto, altri hanno semplicemente un fazzoletto in faccia. Il ragazzo che lancia l’estintore - passato agli onori della cronaca come er pelliccia - si è coperto il volto con la maglietta restando a torso nudo e lasciando scoperto un tatuaggio grazie al quale viene identificato. Non è esattamente un comportamento da devastatore professionista addestrato militarmente in Grecia. A questo fanno riscontro le immagini di poliziotti col volto coperto, che tirano sampietrini, picchiano persone inermi, compiono evoluzioni in mezzo ai manifestanti rischiando di travolgerne qualcuno (vedi
C’è un altro video interessante su youtube: indignati scontro black bloc e polizia : 15 ottobre : roma : video
Qui si vede come, partito l’attacco al corteo, la gente si allontani dagli idranti e dai fumogeni mentre in direzione della polizia arrivino alla spicciolata ragazzi coi caschi e alcuni col fazzoletto in faccia. Non è escluso che tra questi ci sia anche qualche black bloc (al minuto 1:16 sembra di vedere un ragazzo vestito di nero con una spranga o un bastone in mano), ma perlopiù sembrano ragazzi ‘normali’. I black bloc si muovono in ‘reparti’ piccoli ma compatti e tendenzialmente - questa fu l’esperienza di Genova - evitano il confronto diretto con la polizia. Dunque è ipotizzabile che l’arrivo degli idranti e delle camionette abbia infiammato gli animi di alcune migliaia di persone e fatto confluire verso quel punto della piazza settori più radicali, magari anche organizzati, provocando un’escalation. Si possono anche dare giudizi differenti su questa reazione, ma è un dato di fatto che fino a San Giovanni la gente urli contro gli incappucciati e cerchi anche di linciarne qualcuno. A San Giovanni gridano contro polizia e carabinieri. Emblematica la testimonianza dello scrittore Leo Palmisano: Allora ecco che arrivano alla carica le camionette, con ridicoli girotondi e gli idranti che bersagliano chiunque, perfino la spianata, il prato della basilica, noncuranti di chi - come un uomo in carrozzella - era lì per aderire all’indignazione che coinvolge l’intero mondo occidentale. Siamo stati costretti a bendarci, a coprirci come guerriglieri perché i loro lacrimogeni, lanciati a grappolo o ad altezza d’uomo - chi scrive porta i segni di un colpo all’addome ricevuto per aver schermato un diversamente abile - ci hanno impedito di respirare, di parlarci, di dirci quanto fosse folle e diabolico quello che loro ci stavano facendo. Per cinque volte nel fango, per cinque volte poi abbiamo ripreso la piazza. Abbiamo applaudito a noi stessi, e non a loro, perché nessuna organizzazione sindacale e nessun partito è venuto in nostro soccorso.
Dunque mentre la polizia afferma di non aver potuto intervenire contro i black bloc per non mettere in pericolo i ‘manifestanti pacifici’, le immagini dicono che a San Giovanni è successo esattamente il contrario. La migliore documentazione di quanto avvenuto nelle strade è costituita dai video pubblicati dal sito serviziopubblico.it, la nuova web tv di Michele Santoro, che ricapitola in modo organico quanto documentato in modo frammentario dai video su youtube. A San Giovanni - commenta una delle inviate di Santoro - ‘il gruppetto coi caschi diventa un popolo’. Le gente grida di tutto alla polizia: ‘Assassini! Dovete andare al Viminale a protestare! Guadagnate 1200 euro al mese e venite a manganellare noi!’. Immagini di ragazzi e ragazze catturati e picchiati dalla polizia e liberati dalla folla. Centinaia di persone vanno con le mani alzate e a volto scoperto contro la polizia insultandoli e gridando ‘Andatevene!’ e che vengono presi a manganellate. I furgoni compiono le loro evoluzioni in piazza speronando il camion dei COBAS e portando via un pezzo di tettoia a un chiosco di kebab.  In tutti i video che ho indicato i commenti e gli insulti nei confronti delle forze dell’ordine ci parlano di migliaia di persone che si sentono aggredite senza ragione. D’altra parte se si volevano tutelare i ‘manifestanti pacifici’ perché la piazza è stata chiusa e il Vicariato ha dovuto aprire i propri cancelli per dare una via di fuga a chi voleva andarsene? La sensazione è che a Roma sia successo qualcosa di simile al G8 genovese. I black bloc sono una miccia, appaiono e scompaiono, in Piazza San Giovanni sembra si siano volatilizzati, ma quando la polizia spinge i manifestanti fuori dalla piazza e si torna nelle stradine si rivedono le auto in fiamme. Se anche a San Giovanni si fossero semplicemente ‘diluiti’ nella folla rimane il fatto che una miccia da sola non è sufficiente a scatenare un’esplosione.

2. Come interpretare i fatti?

Quando una folla si muove sotto la spinta di fatti così concitati e drammatici emergono forze e pulsioni irrazionali che travalicano le volontà dei singoli e d’altra parte le strategie di piazza dei soggetti organizzati si sommano o si scontrano tra loro in modo non lineare, per cui di solito la risultante non corrisponde mai pienamente a ciò che ciascuno di essi aveva pianificato. E’ il fenomeno che Clausewitz, a proposito della guerra, definiva ‘attrito’ o ‘nebbia’. Dunque bisogna evitare di considerare tutto come il semplice effetto di un piano razionale deciso a tavolino. In campo vi sono una pluralità di soggetti con interessi diversi e spesso al loro interno vi sono articolazioni differenti. Lo Stato non è un monolite, ma un insieme di apparati - potere politico, magistratura, forze dell’ordine - all’interno dei quali spesso si sviluppano ulteriori contraddizioni. Dunque la situazione è estremamente ingarbugliata, ma alcuni strumenti per cercare di analizzare fatti come questi esistono. A me sembra che un metodo vecchio ma tutto sommato funzionante sia chiedersi a chi giova quello che è successo. Il Governo ne ricava un beneficio, perché, se tutto fosse andato bene, la manifestazione sarebbe stata presentata in tutto il mondo come una gigantesca dimostrazione popolare contro Berlusconi e si sarebbe conclusa con una serie di comizi indirizzati in massima parte contro di lui. L’opposizione parlamentare tutto sommato non ne esce male, perché ormai, col vento di Standard & Poor’s che gonfia le vele, qualsiasi cosa accada si può sempre dire che è colpa di Berlusconi. E d’altra parte un bel pezzo del corteo non era propriamente amico neanche del centrosinistra. I vertici di polizia e carabinieri hanno una buona occasione per denunciare i tagli di cui sono vittima (a Roma sono stati usati candelotti di gas scaduti 5 anni fa, come documentato da Repubblica) e qualche magistrato ‘progressista’ può affermare che le intercettazioni telefoniche servono anche per contrastare i black bloc. Di Pietro, che venerdì 14 diceva ‘Via Berlusconi, prima che scoppi la violenza’, domenica 16 chiede leggi speciali contro la violenza, come negli anni ‘70. Tuttavia tutti questi sono interessi di parte che poco contano rispetto alla superiore esigenza di spaccare al suo interno un movimento di contestazione che sta assumendo connotati e slogan magari inconsapevolmente antisistemici, un’articolazione internazionale e una forza tali da renderlo pericoloso. D’altra parte come spiegare che Draghi sia arrivato a dichiarare che ‘i giovani hanno ragione di avercela con la finanza’? Si può pensare che il capo di Bankitalia abbia commesso una gaffe così colossale, sdoganando una manifestazione che si preannunciava ‘movimentata’? No, evidentemente il vero messaggio era   ‘qualunque cosa accada, nel movimento ci sono i buoni’. Naturalmente perché ci siano i buoni ci vogliono necessariamente anche i cattivi. Che settori all’interno dell’establishment abbiano cercato di mettere in rete un assist così invitante come quello fornito da una manifestazione totalmente priva di protezioni, mi sembra fosse del tutto prevedibile.

D’altra parte ridurre i black bloc a mero strumento dello Stato controllato attraverso l’infiltrazione di poliziotti o neofascisti è altrettanto inverosimile. I black bloc - continuo a utilizzare questa formula imprecisa per semplice comodità - sono il prodotto autentico di una società in cui è sempre più difficile trovare vie d’uscita individuali, ma viene a mancare anche una prospettiva di emancipazione collettiva. Situazioni analoghe si ripetono nella storia è spesso sfociano in un nichilismo per cui distruggere una banca o una caserma (o le macchine industriali, come facevano i luddisti) è un modo per esprimere la propria rabbia individuale contro il sistema e se a farne le spese è un disgraziato che deve pagare ancora 40 rate e si trova l’auto sotto casa bruciata, peggio per lui. D’altra parte è chiaro che tutto questo si coagula in un’area politica talmente informale che è soggetta a infiltrazioni di ogni tipo e che può contenere anche soggetti che si dicono contrari a questi metodi (vedi la lettera firmata ‘quello che chiamate il blocco nero’, pubblicata nei giorni scorsi su internet
Non avendo sedi di discussione formale, che sarebbero considerate ‘burocratiche’, in cui discutere eventuali divergenze, ma soltanto i forum su internet, alla fine ciascuno va in piazza e fa quel che vuole. In questa situazione vi può essere una oggettiva convergenza tra queste frange e gli interessi di settori interni allo Stato, anche senza che tale convergenza sia percepita dai primi come tale o che vi siano degli accordi tra le parti. Semplicemente pezzi di apparati politici, economici, repressivi possono inserirsi nelle pieghe di questa oggettiva convergenza per provare a dirigerla e trarne vantaggio. Non sarebbe una novità, ma la conferma di una prassi comune consolidatasi nella storia e che qualcuno forse - chissà su quale base - considerava un ricordo del passato. D’altra parte esiste un fenomeno più generale di rabbia e di disperazione sociale, come emerge ad esempio nell’intervista, apparsa sempre su serviziopubblico.it, a un quindicenne protagonista degli scontri e travolto da un blindato, che dichiara di essere mosso anche dalla consapevolezza di non avere un futuro, la possibilità di un lavoro, di una pensione. Non capire che i confini di questo fenomeno sono ben più ampi di quelli del ‘blocco nero’ significa essere imbecilli o in mala fede. Così è evidente che chi si scontra con la polizia allo stadio tutte le domeniche spesso utilizza la fede calcistica come la ‘giustificazione ideologica’ di un malcontento che spesso ha radici altrove. La rabbia sociale come l’acqua di una falda sotterranea, spesso esce fuori utilizzando i canali e i buchi che trova sul proprio cammino, non costruendo acquedotti.

Qualche giorno fa sono apparse sul Corriere alcune ‘rivelazioni’ su un presunto patto di gestione della manifestazione del 15 ottobre tra Nichi Vendola e gli ex disobbedienti Casarini e Raparelli (già Uniti contro la crisi, oggi Uniti per l’Alternativa). Il primo avrebbe garantito l’elezione nelle liste di SEL in cambio di una gestione pacifica della manifestazione, con l’impegno di non violare la zona rossa dei palazzi del potere, come le organizzazioni più radicali volevano fare. Anche in questo caso l’impostazione complottistica, con tanto di sensali e luoghi dove sarebbe stata siglata l’intesa, risulta un po’ ridicola. Chiunque segua le vicende del dibattito politico sa bene che si sta già discutendo di seggi parlamentari per i ‘rappresentanti del movimento’. Qualche settimana fa, all’assemblea costitutiva di Uniti per l’Alternativa, Casarini nel suo intervento (il video è sul sito di Globalproject) - parlando di sé in terza persona come Giulio Cesare nel De Bello Gallico - diceva che ‘il problema non è se ‘Casarini e Raparelli hanno un posto nelle liste di Vendola e di De Magistris’, ma il movimento, la crisi, le lotte ecc. Tradotto dal movimentese in italiano significa che Casarini e Raparelli, dopo lunga gavetta, stanno cercando di emulare Agnoletto e Caruso e di provare la meritata ebbrezza di Montecitorio. Chiunque capisce altrettanto bene che - anche senza accordi orali, scritti, depositati dal notaio o sigillati col sangue o con la cera lacca - spaccare vetrine e/o essere coinvolti in scontri di piazza e stare nelle liste di SEL o del costruendo partito di De Magistris sono cose che sotto la cappa della ‘coesione nazionale’ non si possono più fare.

3. La campagna stampa sulla violenza

Nel suo Manuale di studi strategici (2004) scrive il generale ex piduista Carlo Jean a proposito del giornalismo di guerra: ‘Qualsiasi restrizione o censura suscita sospetti (…) La soluzione di solito adottata, dopo aver fatto appello alla serietà dei giornalisti e alla loro consapevolezza della necessità di autocensura qualora venissero a conoscenza di particolari delicati, è quella di saturare i media con una grande quantità di informazioni, così da annacquare i particolari che debbono essere mantenuti riservati entro un gran numero di notizie e in modo da non suscitare sospetti, speculazioni e critiche, che potrebbero facilmente spiralizzarsi’. La campagna stampa costruita sul corteo del 15 ottobre è stata costruita secondo questa tecnica, ma anche sulla base del famoso aforisma di Goebbels ‘Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità’ e dovrebbe far riflettere tutti coloro che a sinistra ci presentano i giornalisti come argini alla deriva ‘totalitaria’ rappresentata da Berlusconi. Da Repubblica al Giornale il messaggio che viene veicolato è che tutti dobbiamo mobilitarci contro la violenza, una violenza che non viene analizzata né spiegata, ma evocata come un fatto metafisico e pervasivo, da cui anche i buoni si devono guardare perché potrebbero esserne contagiati senza rendersene conto. Una violenza che va combattuta anche con una campagna di delazione di massa combattuta su internet a colpi di istantanee. Una foto del sottoscritto mentre spacca la legna per la stufa davanti a casa, presa dalla giusta angolazione, potrebbe esporlo al pubblico ludibrio come uno degli autori delle devastazioni. Una felpa scura diventa parte di un arsenale, uno che va in manifestazione con la maschera antigas o un fazzoletto sulla faccia per proteggersi da un gas vietato dalla convenzione di Ginevra è un violento. Tra un po’ per entrare da Decathlon potrebbe volerci il porto d’armi o l’autorizzazione dei genitori. Che vi siano furgoni della polizia che fanno lo slalom in mezzo alla folla, poliziotti che scagliano pietre contro i manifestanti, picchiano persone inermi e stese a terra, ciò non viene nascosto. Sul sito di Repubblica vengono pubblicati video intitolati Carabiniere colpisce manifestante inerme, Manganellate a ragazzo inerme la folla grida assassini, Poliziotto lancia un sampietrino verso i manifestanti. E’ un modo per dimostrare che la stampa è imparziale. Non si nascondono gli abusi della polizia. Si mostrano ma li si affoga dentro un mare di immagini dei manifestanti violenti, mentre quelli che hanno votato i bombardamenti in Libia pontificano che bisogna distinguere i buoni dai cattivi. Se una bomba su Tripoli fa cento volte i danni del 15 ottobre a Roma per la ‘stampa democratica’ non è argomento che meriti non dico un editoriale, ma neanche una sola riga.

Repubblica poi compie un capolavoro pubblicando l’intervista a un black bloc. Ve lo immaginate uno che chiama la redazione di Repubblica e dice ‘pronto, sono un black bloc, vorrei rilasciare alcune dichiarazioni’? Trentenne pugliese, laureato, precario spiega dispiegamento e tattica, viaggi di addestramento in Grecia come se parlasse a nome del comitato centrale dell’Al Qaida nerovestita, come un moderno ninja insurrezionalista. E alla fine - come una ciliegina - ci spiega che lui ‘non parla di politica coi giornalisti’ (però si fa intervistare), che parla ‘coi compagni della Val di Susa’, che a luglio lui c’era e che ‘non è finita’. D’altra parte uno dei due autori dell’intervista, Carlo Bonini, il giorno prima, sempre su Repubblica, aveva buttato lì che - secondo imprecisate voci - a sfasciare tutto c’erano ‘addirittura operai di Pomigliano o almeno così dicevano di essere’. La sera stessa della pubblicazione TG3 e Canale 5 presentano una ricostruzione dei fatti che è la fotocopia dell’intervista di Repubblica senza citare la fonte. Bianca Berlinguer spiega che ci potrebbero essere infiltrazioni anche nella manifestazioni della FIOM. La mattina dopo le agenzie battono la notizia che Alemanno ha vietato il corteo dei lavoratori FIAT e Fincantieri fissato per il 21 ottobre. Qualche giorno dopo i vertici del PD piemontese chiedono di vietare la manifestazione No TAV del 23 ottobre (mentre Cotà dirà che va garantita la libertà d manifestare...). Ciò che colpisce è che - tranne alcune lodevoli eccezioni - anche la stampa ‘alternativa’, Manifesto in testa, si è di fatto accodata alla versione ufficiale. 

L’episodio dell’infiltrato/giornalista è una cartina di tornasole dei meccanismi della comunicazione giornalistica. Premetto che non mi interessa ‘risolvere il mistero’. Si tratta di un episodio, che può avere spiegazioni differenti e comunque non incide più di tanto sull’interpretazione complessiva degli avvenimenti. Se anche provassimo che c’è stata un’infiltrazione sarebbe la scoperta dell’acqua calda. Mi interessa invece ragionare su come funziona l’informazione. Il sito di Repubblica pubblica le immagini di uno strano personaggio che se ne sta tranquillamente appoggiato con le spalle al muro di un edificio, mentre a un metro da lui alcuni ‘neri’ sfasciano la vetrina di una banca. ‘Chi è?’ chiede Repubblica e si apre la caccia all’infiltrato. Poco dopo compare un’altra foto che ritrae lo stesso personaggio in mezzo a un drappello di carabinieri. Sembra la conferma che si tratta di un agente che ‘faceva il palo’ mentre veniva sfasciata la banca. Qualche giorno dopo la smentita. Un cronista di nera de Il Tempo, Fabio Di Chio, rilascia un’intervista al proprio giornale dicendo ‘Ero io’. Il caso viene archiviato come una delle tante bufale che compaiono su internet. Può essere che sia così, ma mi interessa analizzare i sillogismi che regolano la comunicazione di massa. Primo: Di Chio è un giornalista, dunque non è un infiltrato. Con questo si cancellano quarant’anni di storia italiana, da Mino Pecorelli, invischiato in tutti i più torbidi affari del sottobosco romano e ricattatore professionista, a Maurizio Costanzo, iscritto nelle liste della P2, fino al più recente Renato ‘Betulla’ Farina, ex vicedirettore di Libero e autore di dossier diffamatori per conto del SISMI. Secondo: per rendere conto dello strano (e rischioso) punto di osservazione da cui ha scelto di godersi la scena dell’attacco alla banca, Di Chio spiega: ‘Sono arrivato alle due e mi sono messo vicino a una banca. Diremmo "obiettivo sensibile". Scelta azzeccata. Infatti dopo un po' sono arrivati quei ragazzetti che hanno cominciato a sfasciare tutto’. In pratica un giornalista prima ancora che la manifestazione parta si mette a casaccio davanti a una banca e aspetta per ore che qualcuno la devasti. Tra le decine di sportelli presenti lungo il percorso della manifestazione e nelle zone interessate dalle devastazioni ha la fortuna di essersi appostato proprio davanti a uno di quelli che vengono distrutti. Evidentemente stanco per la lunga attesa non ha la forza di cambiare posizione e rimane appoggiato con la schiena al muro a rischio di farsi venire il torcicollo. Fatica sprecata visto che non sono riuscito a trovare un solo articolo di Di Chio sulla manifestazione del 15.

4. La gestione di una manifestazione e l’uso della forza

La necessità di rispondere a una campagna di disinformazione di massa non è in contraddizione con quella di discutere nel movimento e nelle organizzazioni della sinistra come si gestisce una manifestazione. Il 15 ottobre abbiamo assistito a due differenti fenomeni: da una parte l’utilizzo strumentale del corteo da parte di alcune frange politiche come palcoscenico per una serie di azioni simboliche non concordate e non condivise dalla stragrande maggioranza dei manifestanti. Dall’altra la reazione di uno spezzone minoritario ma significativo dello spezzone arrivato a San Giovanni a una provocazione. In entrambe i casi ciò che salta agli occhi è la mancanza di controllo del comitato promotore, della politica e delle grandi organizzazioni, sulla manifestazione che avevano organizzato e, a San Giovanni, la loro totale assenza. Ovviamente vi sono ragioni oggettive, la crisi di rappresentanza produce anche questi effetti, ma non è sufficiente a cancellare le  responsabilità soggettive. L’utilizzo del corteo da parte di terzi poteva essere evitato e la situazione in piazza San Giovanni poteva essere governata. In una manifestazione confluiscono organizzazioni, livelli di coscienza e di radicalità, culture e storie diverse. Gli organizzatori hanno il compito da una parte di selezionare chi sta nel perimetro della manifestazione, perché sono loro a doverne rispondere e dall’altra di trovare una sintesi praticabile tra le diverse anime. Invece, a partire da Genova e sotto la foglia di fico della non violenza si è mascherata l’idea che si va in piazza alla garibaldina e se qualcosa va male la colpa è sempre di qualcun altro.

Qualsiasi ordinamento democratico riconosce la legittimità del diritto all’autodifesa e a nessuno si può chiedere di farsi pestare senza ragione, come il è successo perfino ai manifestanti che a San Giovanni hanno affrontato la polizia con le mani alzate. Allo stesso tempo l’autodifesa implica l’utilizzo della forza, che è uno strumento pericoloso e quindi va gestito e dosato in modo saggio. Si può discutere quale utilizzo della forza sia stato fatto a San Giovanni, cercando di tener conto che una cosa è analizzare le situazioni e un’altra è trovarcisi dentro. In ogni caso il problema non è quello che è successo il 15 ottobre, ma quello che succederà la prossima volta. C’è chi mette in guardia dai servizi d’ordine, citando gli anni ’70, il terrorismo il pericolo di creare schegge impazzite. Ma chi degli anni ’70 ha conservato un ricordo dovrebbe sapere che anche lasciare che la gente venga pestata rischia di far perdere il controllo della situazione. D’altra parte la manifestazione del 23 in Val di Susa dimostra - a mio avviso - che una manifestazione può essere governata e che quando i promotori sono molto autorevoli e dicono prima chiaramente che cosa non sono disponibili a tollerare, può anche non essere necessario avere un servizio d’ordine schierato militarmente.

Le organizzazioni e i partiti della sinistra dovrebbero servire anche ad analizzare fatti e situazioni come queste, a cercare di interpretarle e a fornire delle risposte ai problemi, anzi soprattutto a questo. Tanto più che il 15 ottobre rischia di essere ricordato - a differenza di Genova 2011, che non ebbe un seguito - come un laboratorio del conflitto sociale e dell’ordine pubblico nell’epoca della ‘coesione sociale’. Invece ancora una volta la sinistra ha dato prova di vivere in una sfera separata, in un mondo in cui il futuro di Casarini e Raparelli conta più di quello della gente che era in piazza a prendersi le bastonate e a respirare i lacrimogeni scaduti. Le parole di Palmisano fotografano perfettamente la situazione: Abbiamo applaudito a noi stessi, e non a loro, perché nessuna organizzazione sindacale e nessun partito è venuto in nostro soccorso. Tuttavia questa può essere l’occasione per iniziare una discussione costituente su che tipo di sinistra vogliamo. Io vorrei una sinistra che - invece di starsene in fondo - stia in prima fila, cercando di capire, agire, tirare le somme e fare delle proposte.

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