Giuseppe Faso
Sedicenti Antirazzisti
Uno degli effetti più devastanti della vittoria elettorale delle destre consiste nel fatto che il centrosinistra si riscopre antirazzista. Naturalmente la destra ce la mette tutta, e in buona parte la reazione è sincera e profondamente sentita. Il fatto è che - svolto a fasi alterne - l’antirazzismo funziona male. Si cancella una storia di anni, fatta di omissioni, cattive leggi, pessima stampa e discorsi irresponsabili, e si ricomincia con i discorsi retorici. Vengono poi campagne di cui c’è solo da temere, come quella dell’autunno 2003 sul diritto di voto, da concedere a immigrati tanto assimilati da non sembrare tali: una gaffe di cui gli autori non si sono ancora accorti.
Capita così di ricevere una e-mail di persone dignitose, che propongono una rete di associazioni per lottare contro il razzismo, di cui si accennano manifestazioni tutte successive alla sconfitta elettorale della sinistra; o di leggere una sconfortante intervista a Nando Dalla Chiesa che dichiara di aver fondato, insieme ad altri compagni di partito, un’altra rete “per fermare l’ondata xenofoba”.
Chissà dove si trovavano costoro quando Veltroni parlava di efferatezza solo a proposito di romeni; una di loro, tale Marcella Lucidi, allora sottosegretaria, riferendo in parlamento parlava di due suicidi (consumati al CPT di Modena) come dovuti a un “sedicente” tunisino e un “sedicente” algerino, posponendo la pietà per un gesto così doloroso a un gergo per lo meno volgare.
Forse gli sprovveduti di buona volontà vanno incoraggiati, gli ingenui tollerati. Solo che gli ingenui potrebbero rendersi conto che, intanto che loro si presentano in pubblico come antirazzisti accreditati (una delle componenti più pericolose del sistema razzista), in parlamento i loro compagni di partito assistono inerti a vergogne inaudite, come quelle che caratterizzano il pacchetto sicurezza.
Due sono le retoriche più amate da chi pratica un antirazzismo d’accatto.
La prima è quella che, partendo da una tardiva preoccupazione, nel giro di poche righe si ribalta nella condanna dell’antirazzismo facile, un’etichetta che scimmiottando serie preoccupazioni espresse in Francia intorno al ’90, si è rivelata presto uno slogan cretino: come quando nell’intervista si dice che molta sinistra ha negato “il clan degli albanesi o la violenza del clan dei nigeriani”, concludendo che “rendendo semplice la soluzione è stato fomentato il razzismo”: presunti sempliciotti (di cui non vengono fornite generalità) fomentano, chi urla all’efferatezza etnica (e che è visibilissimo) no: bel ragionamento, bravi.
La seconda strategia, spesso intrecciata alla prima, e regolarmente praticata qui, è quella del periodo ipotetico: una tentazione presente già nel 1990, quando un sociologo raccontava di un conflitto di quartiere sull’uso improprio dei cassonetti da parte di cittadini immigrati, chiosando: “se ci fossero state posizioni di antirazzismo facile…”. Un gruppo di sindaci ribatté, sull’Unità: non si parli al congiuntivo tipico delle dimostrazioni per assurdo, ma di situazioni reali. L’episodio mi è tornato in mente nel maggio del 2007, quando Veltroni intervenne a dar mano forte alla famigerata campagna Poverini-Augias su “Repubblica” scrivendo: “Qualcuno vede in questo … un uscir fuori dai binari del "politicamente corretto"? Se fosse così questo qualcuno sarebbe a mio avviso fuori strada”. Dalla Chiesa perde il congiuntivo e dice che “se in un quartiere c’è un rivenditore di kebab che affumica il condominio, bisogna segnalare il problema per evitare che nel lungo periodo diventi uno dei mille focolai di rancori contro l’immigrato”.
Il fantasma dell’antirazzismo facile, e l’untore a base di kebab da sloggiare in una Genova in cui la speculazione commerciale riconquista il centro storico: questi gli obiettivi concreti. Il dibattito sulla legge in parlamento si può anche tralasciare: sedicenti non solo come antirazzisti, ma anche come parlamentari.-
Left-Avvenimenti, novembre 2008
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