domenica 11 marzo 2012

Tav, i confini del progresso e gli affari sporchi delle mafie




Tav, i confini del progresso e gli affari sporchi delle mafie
Data di pubblicazione: 08.03.2012

Autore: Settis, Salvatore

Proseguono gli inviti alla ragionevolezza di chi spera che sotto l elmetto
ci sia qualche cervello. La Repubblica 8 marzo 2012

Le mani della  ndrangheta sui cantieri Tav: la denuncia di Roberto Saviano è
un grido dŽallarme che costringe a ricondurre sul piano suo proprio, quello
degli affari, ogni discorso sullŽalta velocità. Gli affari sporchissimi
(delle mafie) e quelli, si suppone puliti, delle imprese e delle banche.

Ma che vi siano fra gli uni e gli altri intrecci e convergenze di interessi
non occorre dimostrare. La storia del riciclaggio di denaro sporco di tutte
le mafie, in Italia e fuori, semplicemente non esisterebbe, se non si fosse
trovata ogni volta lŽimpresa "pulita" ma disponibile a trasformare capitali
sporchi in condominii, alberghi, autostrade.

Lo scontro pro e contro il progetto Tav in Val di Susa (ma anche altrove,
come nel "passante" di Firenze) non si deve svolgere dunque solo sulla
fattibilità dei percorsi o i volumi del traffico. Altrettanto importante è
chi partecipa agli appalti, e se quel che intende guadagnare corrisponde
alla legalità e al pubblico interesse. Ha troppa fretta chi considera i
paladini pro-Tav come moderni alfieri dello Sviluppo, bollando i loro
oppositori come arcaici cultori del Ristagno. Il volume degli affari qui in
ballo (compresi quelli delle mafie) è tale che sulla stessa parola
"sviluppo" pesa un gigantesco equivoco. Per sviluppo, infatti, dovremmo
intendere il beneficio che deriverà al Paese e ai cittadini da una "grande
opera" dopo che sia stata eseguita e sia entrata in funzione. Sempre più
spesso, invece, si tende a considerare "sviluppo" lŽopera stessa, la mera
mobilitazione di banche e imprese, capitali (pubblici) e manodopera. Sterile
progetto, se la "grande opera" si rivelasse inutile o producesse guasti
ambientali e sociali.

La linea Tav già realizzata fra Bologna e Firenze è certo un vantaggio per
chi la usa, ma ha provocato la morte di 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e
5 acquedotti, inquinando con sostanze tossiche 24 corsi dŽacqua. I
responsabili delle imprese, condannati per disastro ambientale dal Tribunale
di Firenze, sono stati poi assolti in appello: insomma, la strage ambientale
cŽè stata, ma nessuno è colpevole. Era possibile evitare lo scempio? Secondo
Il Sole-24 ore, il costo per chilometro delle linee Tav in Italia è il
quadruplo che in Francia: quanto di questo enorme divario si poteva spendere
per salvare agricoltura e ambiente? Quanto, invece, hanno incassato le
imprese interessate, e come lo stanno reinvestendo? Quale sviluppo, e a
vantaggio di chi, hanno innescato quegli utili, mentre si devastavano valli
e fiumi? Il loro reinvestimento sta contribuendo a risolvere la crisi senza
dirottarne il costo sui più deboli e più giovani?

Tramontata ogni ipotesi di project financing sui progetti Tav, la Corte dei
conti ha osservato che lŽassenza di «una realistica analisi dinamica della
copertura economica», ha provocato «un onere rilevantissimo per la finanza
pubblica», a causa di «specifici comportamenti del management delle società
in questione», nella «penombra che ha circondato importanti negoziazioni»,
con «decisioni irrazionali o immotivate» che hanno «inciso direttamente o
indirettamente sul patrimonio pubblico». Nonostante questo, si è tirato
diritto, sulla base di una «connotazione chiaramente apodittica». Anche in
Val di Susa, pur senza unŽattendibile analisi costi-benefici, la Tav è
considerato ineluttabile. Ma il progetto ha oltre ventŽanni, le previsioni
di traffico su cui si basava si sono rivelate erronee e hanno obbligato a
destinarlo principalmente al traffico merci, la condivisione dei costi con
la Francia è svantaggiosa. Eppure su questi ed altri motivi di perplessità,
a quel che pare, è vietato discutere. Si parla, per un futuro più o meno
remoto, di consultazioni con le popolazioni del luogo: un obbligo della
convenzione di Aarhus, ratificata dallŽItalia nel 2001 ma finora disattesa.
Ma più che alle convenzioni internazionali si dà peso agli impegni con le
imprese, a costo di darvi corso manu militari.

In un racconto di Mario Soldati, Il berretto di cuoio (1967), il
protagonista, Aduo, è «lo scemo del villaggio», che però «non era affatto
uno scemo», era anzi «aperto, simpaticissimo, intelligente». Ma non
lavorava, non aveva un mestiere; un caso, dicevano i medici, «di sviluppo
arrestato». Finché, affascinato dal cantiere dellŽautostrada
Torino-Piacenza, scatta la scintilla: assunto come guardiano, «lavorò per
dieci», senza limiti di tempo, dallŽalba a notte fonda»; sempre «scrutando
con rapide occhiate» i lavori dellŽautostrada, felice e attonito, con «lo
sguardo che avrebbe potuto avere un assoluto responsabile, unico
appaltatore, unico progettista, unico azionista dellŽautostrada». Quando
lŽautostrada è finita, il tracollo: Aduo non può vivere senza, non mangia e
non beve, viene ricoverato. Una specie di "complesso di Aduo" sembra aver
preso alla gola troppi italiani, che non sanno immaginare altro sviluppo che
la cementificazione del suolo. Distraendoci da altri investimenti più
lungimiranti e produttivi, questo modello di crescita alla cieca è, come
quello di Aduo, uno "sviluppo arrestato" che inceppa il Paese.

Una risposta autoritaria non è accettabile. È necessaria una discussione
aperta e radicale, tanto più in tempi di contenimento della spesa pubblica.
È giusto spendere per la Tav, quando sono allo sfascio ferrovie minori e
treni notturni, anche internazionali? Non sarebbe meglio potenziare le
strutture esistenti, a cominciare dalla cintura ferroviaria di Torino? È
meglio costruire nuove grandi opere o arrestare il degrado dei servizi
sociali e della scuola? Viene prima la difesa del paesaggio,
dellŽagricoltura e dellŽambiente o la (presunta) convenienza economica della
Tav?

Unica bussola per rispondere a queste domande, la Costituzione consacra la
tutela del paesaggio e dellŽambiente: «La primarietà del valore
estetico-culturale», anzi, non può essere «subordinata ad altri valori, ivi
compresi quelli economici», e pertanto devŽessere «capace di influire
profondamente sullŽordine economico-sociale» (Corte Costituzionale,
151/1986). I portatori (sani?) del "complesso di Aduo" dicono il contrario:
che le ragioni economiche sovrastano i principi del bene comune. Un "governo
tecnico" dovrebbe avere la forza di aprire sul tema un vero tavolo di
confronto. Parlare di "campagne dŽinformazione" a una direzione, il cui
esito si dia per scontato, non ha nulla di "tecnico". Sarebbe un gesto
politico: e non è di questa politica che il Paese ha bisogno.




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