martedì 24 dicembre 2013

Ecco come l’immigrato si trasforma in una cosa


il manifesto
Martedì, 24 Dicembre 2013 ultimo aggiornamento • 10,00

La doccia shock. La psicologa di Lampedusa
L’indignazione pub­blica di cui si legge in que­sti giorni di fronte ai fatti di Lam­pe­dusa suscita per­ples­sità. Non per­ché le scene tra­smesse dai media non siano toc­canti, ma per­ché sgo­mento e sde­gno ali­men­tano la reto­rica uma­ni­ta­ri­sta che impe­di­sce una let­tura sto­rica su quanto la nor­ma­tiva sulla migra­zione e la con­se­guente poli­tica dell’accoglienza pro­du­cono nel loro quo­ti­diano e ordi­na­rio dipa­narsi. Anzi­ché con­cen­trarsi sull’«anomalia» delle imma­gini dif­fuse sarebbe invece inte­res­sante capire con quali pra­ti­che poli­ti­che, morali e sto­ri­che il gesto che ha susci­tato tanto scal­pore si ponga in stretta con­ti­nuità. Dal punto di vista etico l’immagine della doc­cia anti­scab­bia è una rap­pre­sen­ta­zione con­creta ed effi­cace dei pro­cessi di cosi­fi­ca­zione e desog­get­ti­va­zione su cui si fonda il sistema di acco­glienza dei richie­denti asilo. Non c’è alcuna frat­tura tra la mas­sic­cia medi­ca­liz­za­zione a cui i corpi dei migranti sono sot­to­po­sti, l’analisi e le dia­gnosi dei loro disturbi sorde a qual­siasi dimen­sione che esuli da quella bio­lo­gica, ’uni­ver­sale’ e un inter­vento di ’sani­fi­ca­zione’ non-curante di rispet­tare il minimo senso del pudore. La vita nei cen­tri di acco­glienza, spe­cial­mente quelli che aggre­gano grandi numeri di per­sone, è impron­tata alla dein­di­vi­dua­liz­za­zione dovuta ad una rou­tine che non pre­vede dif­fe­renza né agency. La per­sona, trat­tata come un insieme di biso­gni ogget­tivi e un insieme di pro­ce­dure da effet­tuare è al cen­tro di un campo di forze poli­ti­che, eco­no­mi­che, giu­ri­di­che, sociali, sto­ri­che, cul­tu­rali dove lo spa­zio per il diritto alla sog­get­ti­vità è «tem­po­ra­nea­mente» ristretto, in nome di una sospen­sione dello sta­tus giu­ri­dico che sem­bra legit­ti­mare anche una sospen­sione morale su quanto viene effet­tuato su que­sti corpi. Il gesto, solo in appa­renza poli­ti­ca­mente neu­trale, di «rag­grup­pare» e «acco­gliere» nei cen­tri i migranti in arrivo sulle coste ita­liane non è che il primo di una serie di atti volti a disar­ti­co­lare len­ta­mente la sog­get­ti­vità della per­sona al fine di ren­derla meglio «adat­ta­bile». La legge pre­vede che ad essere dispen­sato non sia cibo, ma un quan­ti­ta­tivo di calo­rie suf­fi­ciente a sfa­mare un corpo con deter­mi­nati valori da man­te­nere inal­te­rati. L’assegnazione di un numero di badge, di una divisa, rap­pre­sen­tano gesti poli­tici che col­lo­cano le per­sone all’interno di un ordine delle cose da cui rice­ve­ranno rico­no­sci­mento solo a patto di pie­garsi e iden­ti­fi­carsi in esso, restando mute e docili anche di fronte alle umi­lia­zioni che esso com­porta. Di fronte a sistemi — di acco­glienza ma anche di altra natura– che fram­men­tano i biso­gni dell’umano e stan­dar­diz­zano la rispo­sta ad essi, sorge il dub­bio che vi sia una que­stione morale aperta, uno scan­dalo in corso da man­te­nere in una zona d’ombra. Nei cen­tri di acco­glienza il sog­getto è ridotto alla sua dimen­sione bio­lo­gica, diventa corpo da sfa­mare, disci­pli­nare, uni­for­mare, sani­fi­care. E’ la dina­mica stessa del «campo» ad imporne il con­trollo in nome del cosi­detto «bene comune» o «ordine pubblico».
(…) Mi sono sem­pre inter­ro­gata sulla scarsa con­si­de­ra­zione che si con­fe­ri­sce al fat­tore tem­po­rale nelle vicende dei migranti. Di fronte alla ten­sione dovuta ai tempi di attesainso­ste­ni­bili prima di otte­nere un docu­mento, i richie­denti asilo si sen­tono spesso rispon­dere: «Hai già fatto un viag­gio di anni, cosa cam­bia se ne perdi altri due per avere un per­messo di sog­giorno?» Allo stesso modo, la per­ma­nenza pro­lun­gata nel cen­tro di Lam­pe­dusa di alcuni super­stiti del 3 otto­bre, di cui si parla solo in que­sti giorni, non sem­bra susci­tare rea­zioni, se non di ordine emo­tivo e media­tico. Sem­bra esserci un paral­le­li­smo, una ana­lo­gia tra l’insufficiente con­si­de­ra­zione delle matrici Sto­ri­che della migra­zione con­tem­po­ra­nea e la sva­lo­riz­za­zione del tempo sog­get­tivo della per­sona che migra. Entrambe, la Sto­ria e le sto­rie, sem­brano essere annul­late, appiat­tite da parte delle isti­tu­zioni, che get­tano in un limbo tem­po­rale di attesa inde­fi­nita la vita di que­ste per­sone. Infine, que­sta vicenda mette in evi­denza un’altra con­ti­nuità nel pro­cesso disu­ma­niz­zante — ma anche nei moti di resi­stenza ad esso– che carat­te­rizza i per­corsi migra­tori di chi parte dall’Africa sub­sa­ha­riana, dal corno d’africa, dalla Siria e che attra­versa e fugge da aree gri­gie in cui la vio­lenza e i soprusi sono ordi­nari e impu­niti. Chi arriva a Lam­pe­dusa ha già spe­ri­men­tato sulla pro­pria pelle la sen­sa­zione di essere «oggetto». Molti migranti mi rac­con­tano l’esperienza libica come una sorta di mac­china del tempo che li ha ricon­nessi con la memo­ria col­let­tiva dello schia­vi­smo tra­smessa loro dai grand –gran­d­fa­thers. Hanno vis­suto la paura di essere uccisi per strada solo per il colore della loro pelle o per avere guar­dato qual­cuno troppo a lungo, come è suc­cesso a molti dei loro amici.
(…) Nono­stante ciò, nelle parole di tanti richie­denti asilo l’esperienza più dif­fi­cile è quella della per­ma­nenza nei cen­tri di acco­glienza, dove essi stessi descri­vono con parole appun­tite il pro­cesso di vam­pi­riz­za­zione e «invi­si­bi­liz­za­zione» a cui sono sot­to­po­sti, che si inter­rompe solo nel momento in cui si pre­sen­tano agli spor­tello degli ospe­dali come «corpi» da fru­gare. Riporto le parole di un signore della Sierra leone arri­vato a Roma durante la cosi­detta emer­genza Nord Africa e che, durante un col­lo­quio mi disse: «In pas­sato gli euro­pei veni­vano in Africa a pren­dere gli schiavi, adesso siamo noi a venire qui e a ren­derci tali. Le nostre vite ser­vono a dare occu­pa­zione e red­dito agli ita­liani, non ad essere vis­sute». Un ragazzo nige­riano, sta­volta ori­gi­na­rio del Delta State, zona impo­ve­rita dalle com­pa­gnie petro­li­fere euro­pee, mi dice al suo arrivo a Lam­pe­dusa: «I am here to take my money back». Ma que­sta verità, il ragazzo, non potrà espri­merla, quando farà la com­mis­sione ter­ri­to­riale. E lo sa. Dovrà con­for­marsi a dare un’immagine del pro­prio paese in cui i diritti umani ven­gono cal­pe­stati da poli­tici cor­rotti e, soprat­tutto, da cul­ture «inci­vili» e inca­paci di tute­larli. Dovrà pro­vo­care lo sde­gno e l’indignazione in chi si fa rap­pre­sen­tante, deten­tore e difen­sore dei diritti umani e forse per que­sto sarà «sal­vato» da tanta bar­ba­rie. Per­ché sa bene che le domande di asilo non sono valu­tate con­si­de­rando le com­pli­cità eco­no­mi­che e poli­ti­che tra i paesi di fuga e i paesi di acco­glienza. La ten­denza tutt’ora pre­va­lente è quella di fare leva sulla reto­rica dell’umanitarismo che prende in carico corpi depo­li­ti­ciz­zati e desto­ri­fi­cati, così che men­tre tam­po­niamo ferite senza doman­darci come siano state pro­cu­rate, il sistema poli­tico ed eco­no­mico con­ti­nua assiduam
ente e per il verso con­tra­rio a ripro­durre le stesse con­di­zioni che le hanno generate.
*Psi­co­loga psicoterapeuta,
Pro­getto «Faro III», Sup­porto psi­co­lo­gico e psi­co­so­ciale ai Minori migranti e alle fami­glie con bam­bini in arrivo a Lampedusa.

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