Liberazione 24 agosto 2011
Prima pagina
Scure sugli enti locali,
un attacco alla democrazia
Gianluigi Pegolo
Nelle maglie di una manovra economica, pesantissima sul piano sociale, si consuma anche un altro scempio, quello sulla democrazia. Attraverso la demagogia dei tagli ai costi della politica si produce un ulteriore vulnus al ruolo delle istituzioni e al sistema della rappresentanza.
Mi riferisco in modo particolare alla vicenda degli enti locali. Sul piano economico, a seguito della manovra, nel solo 2012 il sistema delle autonomie locali subirà tagli per circa 6 miliardi di euro in aggiunta a quelli già previsti con le manovre precedenti e nel 2013 per 3,2 miliardi, che graveranno soprattutto su regioni e comuni e in misura minore sulle province. >>
«Il 29 agosto con l’Anci a Milano contro la chiusura dei piccoli Comuni, i tagli alla democrazia e ai servizi».
Questo il testo dei telegrammi che i piccoli Comuni italiani invieranno nei prossimi giorni al presidente del Consiglio dei ministri. Una iniziativa, spiega Mauro Guerra, coordinatore dei piccoli Comuni, «che sottolinea l’importanza della mobilitazione che abbiamo promosso, sarà l’occasione per manifestare ancora una volta, e di più, tutto il nostro disappunto per la manovra appena approvata dal Governo, che mette a rischio la storia e
l’identità democratica di circa 1950 comuni italiani».
E sono oltre cento i sindaci e gli amministratori pubblici dei Comuni cuneesi che ieri hanno raccolto in una cesta le chiavi dei Municipi per consegnarle al prefetto Patrizia Impresa. Il gesto simbolico intende protestare contro i tagli agli enti locali e l’accorpamento dei Comuni con meno di mille abitanti previsto dalla manovra finanziaria. Sono ben 137 su 250 i Comuni della provincia di Cuneo che rischiano di perdere l’autonomia. «E i risparmi
saranno comunque molto limitati, perch‚ la gran parte di noi lavora già ora gratuitamente» hanno fatto notare sindaci e assessori che si sono riuniti. Duramente contestati anche i criteri di «fusione» che in diversi casi porterebbero all’unificazione di municipi in vallate diverse, non collegate da valichi e dunque distanti fra di loro anche più di cinquanta chilometri.
Cosa c'è davvero dietro la scure su province e piccoli comuni
Gianluigi Pegolo
Per avere un’idea di cosa concretamente ciò significhi si consideri che nel caso dei comuni - com’è stato
calcolato dall’Anci-Ifel - alla fine del quadriennio 2011-2014 questi nel complesso disporranno del 46% in
meno delle risorse ottenute nel 2010 e nel caso di quelli “non virtuosi” i due terzi di risorse in meno. Sempre
sulla base delle stime dell’Anci-Ifel, anche ricorrendo all’applicazione integrale dell’addizionale Irpef solo il
40% dei comuni riuscirebbe a compensare le riduzioni di trasferimenti.
Per gli altri non vi sarebbe altra possibilità che ridurre i servizi o incrementare ulteriormente la pressione
impositiva locale ed è, infatti, quello che sta avvenendo. Infine, va sottolineata la nuova stretta sui servizi
pubblici locali con la loro forzata privatizzazione.
Siamo cioè giunti al limite di tenuta del sistema istituzionale decentrato e delle funzioni che gli sono attribuite,
con buona pace della retorica federalista sulla valorizzazione delle autonomie locali. Gli enti locali da perno per politiche di coesione sociale si stanno trasformando in esattori dei cittadini. La loro funzione redistributiva
salta, la loro capacità di controllare l’offerta dei servizi locali anche e con queste la loro stessa legittimità
come istituzioni di prossimità.
Ancora più subdolo l’attacco che viene condotto sull’ordinamento del sistema istituzionale. Una trentina di
province o poco meno (il calcolo esatto si dovrà fare sulla base delle risultanze del censimento 2011), più
piccole per abitanti e dimensione geografica, dovrebbero essere cancellate e riaccorpate ad altre. L’argomentazione è la solita: non servono, le loro funzioni possono essere svolte da altri enti, comuni o regioni. Ma è proprio così? Materie come la pianificazione territoriale a grande scala, la formazione e il mercato del lavoro, la gestione del sistema stradale, l’ambiente, l’edilizia scolastica sono difficilmente delegabili ad associazioni di comuni. Si può e si deve criticare la crescita del numero delle province in questi anni, ma una soppressione sic et simpliciter crea di fatto più danni che vantaggi. In particolare essa lede le norme contenute nell’articolo 133 della Costituzione che non prevede la possibilità di una loro cancellazione per legge ma attraverso un processo che coinvolge le altre istituzioni locali (comuni e regioni), inoltre fa saltare o rimette fortemente in discussione la stessa struttura regionale del paese.
Con che credibilità si può sostenere che regioni come la Basilicata, l’Umbria, il Molise o la Liguria potrebbero reggere nel momento in cui sul loro territorio insiste una sola provincia? Non solo, vi è un altro aspetto da considerare.
Da anni si parla di aree metropolitane, che addirittura sono state inserite in Costituzione. E’ evidente
che se un’opera di riordino ragionevole delle province si deve effettuare è da lì che si deve partire. E se si vuole
davvero risparmiare, perché non attribuire alle province molte delle funzioni di quella pletora di organi
di secondo grado che abbondano a livello locale e che sono spesso fonte di sprechi?
Sull’accorpamento dei piccoli comuni siamo di fronte ad un altro pasticcio.
Sui circa 8.000 comuni italiani poco meno di 2.000, inferiori ai 1000 abitanti, verrebbero tagliati e
accorpati in “unioni municipali”. Anche qui le motivazioni sono note: si tratta di comuni troppo piccoli per esercitare al meglio le loro funzioni. La qualcosa ha un fondamento, ma va ricordato che rispetto agli altri paesi europei l’Italia non ha un numero proporzionalmente maggiore di comuni. In secondo luogo, fra i piccoli comuni è già in atto un processo d’integrazione delle funzioni su base intercomunale, che si avvale in primo luogo di strumenti quali le comunità montane e le unioni di comuni.
La soluzione ragionevole è allora quella di procedere in modo organico a un’estesa integrazione delle
funzioni, se occorre ricorrendo a meccanismi premiali che, per esempio, sottraggano ai vincoli draconiani
del patto di stabilità i comuni che dimostrino in questo la loro virtualità.
Vi è, tuttavia, un’altra ragione per la quale è molto più ragionevole integrare funzioni anziché sopprimere
istituzioni locali e questa sta nel carattere di presidio del territorio che oggi i piccoli e piccolissimi comuni
esercitano attraverso l’impegno di amministratori locali che in termini economici percepiscono cifre irrisorie.
Queste scelte della manovra sugli enti locali potrebbero essere liquidate come irrazionali, demagogiche e dettate unicamente dal tentativo di recuperare risorse, ma c’è di più, perché esse costituiscono un attacco
esplicito alla democrazia. Si pensi alla scelta scellerata di ridurre il numero di consiglieri e assessori. Si può discutere sulla scelta relativamente ai consigli regionali, che in alcuni casi sono stati esageratamente aumentati,
anche se è da discutere la dimensione della riduzione. Quello che invece è assolutamente inaccettabile è
la drastica riduzione della rappresentanza per le province, dove si procede al loro dimezzamento senza che
peraltro si prevedano benefici economici.
Considerando che con il Dl Calderoli in precedenza le province avevano subito una riduzione di consiglieri e assessori nell’ordine del 20%, questo significa che nell’arco di due anni siamo arrivati a una riduzione
del 60% della rappresentanza istituzionale. Lo stesso dicasi per i comuni inferiori ai 10.000 abitanti,
benché in questo caso la riduzione sia più contenuta. L’effetto pratico è una spinta fortissima al bipolarismo in virtù dell’inaccessibilità delle soglie di sbarramento (implicite) che sono introdotte in presenza di sistemi elettorali maggioritari.
Questo meccanismo mina esplicitamente il pluralismo e tende alla centralizzazione del sistema decisionale.
Si è spesso parlato di sindaci podestà, oggi se ne prevede un’istituzione formale. Alla soppressione
dei comuni sotto i 1000 abitanti dovrebbe, infatti, subentrare la nomina (per via elettorale) dei soli sindaci e
non più dei consiglieri e degli assessori.
Per tutte queste ragioni, nell’ambito della battaglia contro la manovra finanziaria, la difesa del sistema delle autonomie locali costituisce un impegno essenziale. Contro il dilagante scetticismo sul funzionamento delle istituzioni occorre far emergere un elemento essenziale: esiste una stretta connessione fra condizione sociale, esercizio della democrazia e ruolo delle istituzioni locali. Per questo la ribellione in atto da parte degli amministratori locali e delle relative associazioni non può essere interpretata come pura difesa corporativa di ceti politici locali, ma va invece considerata per quello che è: una reazione necessaria di fronte a norme che stravolgono il ruolo stesso del sistema istituzionale decentrato. Per questo vanno sostenute le manifestazioni in corso promosse dalle associazioni degli enti locali ed è necessario estendere il dibattito nelle assemblee elettive e fra i cittadini.
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