ANCHE MUSSOLINI NEL 1924 VOLEVA LA GOVERNABILITA’
27 Gennaio 2014
L’ombra di Giacomo Acerbo sul patto elettorale Renzi-Berlusconi.
Esagerò con il premio di maggioranza ma non impose soglie di sbarramento e ammise il voto di preferenza. Il “bimbo” di Firenze non è Acerbo ma produce con un pregiudicato un super-porcellum che azzera le rappresentanze minoritarie.
di Lucio Manisco
Correva l’anno 1924 e il cav. Benito Mussolini era ossessionato come molti al giorno d’oggi dal problema della governabilità. Affidò pertanto all’On. Giacomo Acerbo il compito di modificare la legge elettorale del 1919 basata sul proporzionale: a differenza del “bimbo” di Firenze l’Acerbo nominò una commissione di 18 insigni personaggi in gran parte liberali, socialisti e democratici (Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi, Filippo Turati, Alcide De Gasperi ed altri dello stesso calibro) che sfornò una nuova legge elettorale che prevedeva un premio di maggioranza entro un collegio nazionale suddiviso in sedici circoscrizioni: in ogni circoscrizione le liste potevano presentare da tre a più candidati per un totale nazionale di 356 seggi sui 535 in lizza; il cosiddetto diritto di tribuna veniva garantito dall’assegnazione, quale che che fosse l’esito elettorale, dei rimanenti 179 seggi ai partiti minori. Infine oltre al voto di lista era ammesso il voto di preferenza. L’aberrazione fascistica e antidemocratica era evidenziata dal premio di maggioranza che assegnava due terzi dei seggi, e cioè i 356 di cui sopra, al partito che avesse ottenuto il 25% dei voti.
Il Cavalier B. Mussolini ovviamente stravinse con un listone nazionale che con le liste civetta ottenne poco meno di 5 milioni di suffragi su 7 milioni di votanti. Al Partito Comunista d’Italia andarono 268.000 voti (19 seggi), ai due partiti socialisti 46 seggi, al Partito Popolare 39, ai liberali 15, ai repubblicani 7. Secondo il patto elettorale Renzi-Berlusconi nessuno di questi partiti di allora avrebbe ottenuto un solo seggio alla Camera e al Senato.
Si tratta di assonanze e non di analogie vere e proprie, ma vanno menzionate almeno come singolari curiosità storiche: il duce licenziò su due piedi tre fascisti dissidenti, Renzi ha provocato le dimissioni di Fassina e Cuperlo. Quattro mesi dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti Mussolini minacciò di portare i suoi manipoli nell’aula “sorda e grigia” di Montecitorio: Matteo Renzi non ha assassinato nessuno e non dispone di manipoli ma con l’imposizione del prendere o lasciare, così com’è, il patto con il Cav. Berlusconi fa il bullo nella direzione del suo partito e poi con i parlamentari del PD. Naturalmente non accenna ad altri imbarazzanti contenuti della chiacchierata con Letta zio e con il Cavaliere di Arcore, contenuti peraltro sicuramente registrati dai centri d’ascolto sallustiani della N.S.A americana a Roma. E con l’esclusione dal parlamento dei piccoli partiti di opposizione che anche messi insieme non raggiungeranno mai le soglie di sbarramento, a tutti gli effetti pratici va al di là di quanto osato dall’altro cavaliere di ottanta anni fa. E per carità di patria fermiamoci qui.
Esagerò con il premio di maggioranza ma non impose soglie di sbarramento e ammise il voto di preferenza. Il “bimbo” di Firenze non è Acerbo ma produce con un pregiudicato un super-porcellum che azzera le rappresentanze minoritarie.
di Lucio Manisco
Correva l’anno 1924 e il cav. Benito Mussolini era ossessionato come molti al giorno d’oggi dal problema della governabilità. Affidò pertanto all’On. Giacomo Acerbo il compito di modificare la legge elettorale del 1919 basata sul proporzionale: a differenza del “bimbo” di Firenze l’Acerbo nominò una commissione di 18 insigni personaggi in gran parte liberali, socialisti e democratici (Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi, Filippo Turati, Alcide De Gasperi ed altri dello stesso calibro) che sfornò una nuova legge elettorale che prevedeva un premio di maggioranza entro un collegio nazionale suddiviso in sedici circoscrizioni: in ogni circoscrizione le liste potevano presentare da tre a più candidati per un totale nazionale di 356 seggi sui 535 in lizza; il cosiddetto diritto di tribuna veniva garantito dall’assegnazione, quale che che fosse l’esito elettorale, dei rimanenti 179 seggi ai partiti minori. Infine oltre al voto di lista era ammesso il voto di preferenza. L’aberrazione fascistica e antidemocratica era evidenziata dal premio di maggioranza che assegnava due terzi dei seggi, e cioè i 356 di cui sopra, al partito che avesse ottenuto il 25% dei voti.
Il Cavalier B. Mussolini ovviamente stravinse con un listone nazionale che con le liste civetta ottenne poco meno di 5 milioni di suffragi su 7 milioni di votanti. Al Partito Comunista d’Italia andarono 268.000 voti (19 seggi), ai due partiti socialisti 46 seggi, al Partito Popolare 39, ai liberali 15, ai repubblicani 7. Secondo il patto elettorale Renzi-Berlusconi nessuno di questi partiti di allora avrebbe ottenuto un solo seggio alla Camera e al Senato.
Si tratta di assonanze e non di analogie vere e proprie, ma vanno menzionate almeno come singolari curiosità storiche: il duce licenziò su due piedi tre fascisti dissidenti, Renzi ha provocato le dimissioni di Fassina e Cuperlo. Quattro mesi dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti Mussolini minacciò di portare i suoi manipoli nell’aula “sorda e grigia” di Montecitorio: Matteo Renzi non ha assassinato nessuno e non dispone di manipoli ma con l’imposizione del prendere o lasciare, così com’è, il patto con il Cav. Berlusconi fa il bullo nella direzione del suo partito e poi con i parlamentari del PD. Naturalmente non accenna ad altri imbarazzanti contenuti della chiacchierata con Letta zio e con il Cavaliere di Arcore, contenuti peraltro sicuramente registrati dai centri d’ascolto sallustiani della N.S.A americana a Roma. E con l’esclusione dal parlamento dei piccoli partiti di opposizione che anche messi insieme non raggiungeranno mai le soglie di sbarramento, a tutti gli effetti pratici va al di là di quanto osato dall’altro cavaliere di ottanta anni fa. E per carità di patria fermiamoci qui.
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