venerdì 29 luglio 2011

Migranti, lavoro e l' “esercito industriale di riserva”

“Gli immigrati fanno i lavori che noi italiani non vogliamo più fare”

Questa semplicissima frase è diventata una sorta di leitmotiv degli antirazzisti. E' una frase che corrisponde al vero, che non è nuova anche in Italia, paese di immigrati da relativamente poco tempo rispetto agli altri paesi (fino a 20 anni fa era usata nei confronti dei meridionali), ma che non ci fa individuare il problema. Più che un'analisi dell'immigrazione è diventata una sorta di sentenza moralizzante.
In un video che circola su Youtube il ministro Brunetta, oltre a spiegare la sua speciale ricetta economica per la disoccupazione giovanile (“Andate a scaricare le cassette ai mercati generali”) usa questa frase proprio per giustificare le sue deliranti posizioni. E se andiamo a vedere dai ponteggi dei muratori alle concerie della zona del Cuoio, dai campi di pomodori a chi consegna volantini porta a porta, troviamo nella stragrande maggioranza dei casi immigrati.
Allora il Ministro Brunetta ha ragione? In realtà, e questo è un errore anche di chi da sinistra guarda l'immigrazione, la sentenza moralizzante “Gli immigrati fanno i lavori che noi italiani non vogliamo più fare” andrebbe integrata con “a quelle condizioni”. Con una semplicissima aggiunta si apre una strada immensa per la comprensione del fenomeno: gli italiani non sono disposti ad andare a due euro l'ora a nero a cogliere pomodori, senza assicurazione né diritti. In una condizione del genere gli immigrati diventano una sorta di bilanciamento rispetto le conquiste sindacali degli italiani.
Karl Marx definì i disoccupati come “esercito industriale di riserva”, ovvero come quella forza in mano al capitale che permette la riduzione dei diritti di chi già lavora, sotto il ricatto del “o lavori te a queste condizioni o trovo qualcun altro che lavora al posto tuo”. In una situazione dove la domanda di lavoro non aumenta, ma aumenta la forza lavoro con l'arrivo di immigrati (di sicuro non dal barcone che arriva prima dall'Albania poi dall'Africa, ma su questo ritorno dopo), la forza lavoro italiana sindacalizzata si riduce, sostituita da quella immigrata senza tutele e diritti. Se non comprendiamo questa dinamica non arriviamo da nessuna parte.
L'immaginario costruito da 20/30 anni sull'immigrazione, favorito dalla propaganda non soltanto leghista ma anche da chi a sinistra è in buona fede, è rappresentato emblematicamente dell'immagine del barcone pieno di immigrati che arriva sulle coste italiane. Come se fosse una scelta individuale dei singoli che decidono, nel pieno delle loro facoltà, di partire e cercare in un altro paese un futuro dignitoso. In realtà l'umanità si è spostata da sempre: dagli antichi greci, che mandavano la popolazione in eccesso a fondare nuove colonie, alle invasioni barbariche per l'Impero Romano. Adesso la globalizzazione ha accelerato questi spostamenti. Gli spostamenti di merce, di persone ma anche di idee sono più rapidi e più veloci.
Il capitale nell'età contemporanea ha sfruttato questa velocità: come si spostano più velocemente i prodotti da un paese all'altro si sposta anche più velocemente la merce per eccellenza, il lavoro umano.
Da una parte subiamo l'arrivo di immigrati che abbassano il costo del lavoro; dall'altra subiamo il fenomeno inverso, le industrie spostano la produzione dove il costo del lavoro è minore. Queste sono entrambe due facce della stessa medaglia. Invece che globalizzazione dei diritti si è attuata la globalizzazione dello sfruttamento. Come nella teoria dei vasi comunicanti, un costo del lavoro minore in un paese, a causa dell'abolizione dei confini nazionali (che non hanno più un ruolo di protezione dalle merci di altri paesi a causa della globalizzazione stessa) porta all'abbassamento del costo del lavoro (quindi di salari e diritti) in un altro. Se facciamo fatica ad individuare questo fenomeno del lungo termine, basti pensare a quello che è successo nella FIAT di Marchionne: il ricatto del “o lavori te a queste condizioni o trovo qualcun altro che lavora al posto tuo”, che si sta estendendo anche ad altre grandi aziende.
L'esempio più emblematico è l'entrata nell'Unione Europea di paesi come la Polonia o la Romania.
Lo stesso Berlusconi si è dichiarato favorevole all'ingresso di questi paesi: da una parte aziende come la FIAT (presa da esempio ma non è l'unica) possono delocalizzare la produzione là senza subire gli svantaggi di politiche doganali avverse proprio perché sono nel mercato comune europeo; dall'altra la FIAT può minacciare qua in Italia la delocalizzazione, chiedendo una diminuzione dei diritti.
Di fronte a questa situazione il dibattito su questo problema (perché, nei fatti, la miseria che spinge una persona a scappare dal proprio paese rappresenta un problema) è appiattito su posizioni che non lo risolvono affatto: si parla di diritti semplicemente civili (come il diritto di voto amministrativo o la costruzione di moschee), sicuramente sacrosanti, ma che appunto non risolvono il problema.
Esso è economico. Il meccanismo che fa scappare dalla fame il rumeno è lo stesso che porta alla cassa integrazione l'italiano. La discussione sull'immigrazione, anche all'interno della stessa sinistra, va portata su questo piano, perché (e questi sono i risultati) appiattirsi su altro può portare soltanto a palliativi, che non risolvono né razzismo né xenofobia.

Kirov










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