Noi c’eravamo
Interviste a tre ragazzi che 10 anni fa presero parte al Social Forum
Quei caldi giorni di luglio a Genova rimarranno per sempre scolpiti nelle loro menti. Anche dalla nostra zona molte persone sono partite con la speranza di partecipare a delle manifestazioni pacifiche nel tentativo di cambiare, ognuno nel proprio piccolo, qualcosa in meglio.
Per celebrare i dieci anni da quelle giornate che hanno segnato, oltre alle vite di moltissimi, una delle pagine più tristi della democrazia italiana, abbiamo raccolto qualche testimonianza da chi quei giorni li ha vissuti e non se li dimenticherà.
“Sono partita per Genova da sola, -racconta Moira Cappellini- con la speranza di incontrare degli amici triestini che nella bolgia non sono mai riuscita a trovare. Per fortuna durante il viaggio ho conosciuto altre due ragazze empolesi con le quali ho passato tutti quegli intensissimi giorni. La prima cosa strana che notammo è che nella palestra in cui eravamo alloggiati c’erano dei tipi strani, vestiti di nero e con il viso coperto, non capivamo chi fossero e cosa volessero fare. La manifestazione dei migranti fu bellissima e pacifica, il peggio successe nei giorni seguenti. Io assistetti al corteo con il gruppo di Attac Francia, con il quale gonfiavamo palloncini da mandare nella famosa zona rossa. Inizialmente andò tutto bene, poi all’inizio del corteo successe qualcosa, le voci che ci arrivavano erano strane e contorte e capimmo che c’era qualcosa che non andava. I poliziotti cominciarono a lanciare lacrimogeni, in quei momenti credetti anche di morire. Quel gas è qualcosa di veramente atroce, ti blocca la respirazione, ho passato dei momenti terribili. Mi misi a correre e riuscii a salire su una specie di scogliera passando da un buco e provocandomi graffi in tutto il corpo. In pochi istanti mi accorsi che in molti come me si erano riparati in quel piccolo spazio. La polizia da sotto ci “invitava” a scendere con i manganelli. Dopo un po’ decidemmo di acconsentire. Sono stata molto fortunata perché una volta giù non ci fecero quasi nulla se non farci mettere le mani dietro la testa e insultarci con ogni appellativo prima di lasciarci andare. Un paio di anni dopo io e le mie due compagne decidemmo di tornare a Genova per quell’ “Horror Tour”, non è stato facile rivivere quei momenti. Quelle giornate hanno cambiato molte cose in me, ora tutte le volte che vedo la polizia in tenuta anti-sommossa o le camionette non posso non provare paura”.
“Io facevo parte della Rete Lilliput –ricorda Rosella Luchetti- e partimmo in due da Empoli. La sensazione fu da subito strana, ci accorgemmo che la città era superblindata, c’era un’atmosfera irreale in tante parti della città. Alla manifestazione del venerdì si iniziò a parlare di scontri, c’erano cassonetti rovesciati, auto in fiamme e vetrine fracassate. In più di un’occasione abbiamo visto poliziotti in borghese che non intervenivano per fermare questi personaggi vestiti di nero. Furono momenti di vero delirio, non si capiva chi inseguiva chi, naturalmente poi c’era la maggiorparte della gente che subiva. A noi per fortuna non è successo nulla di male però abbiamo visto molte scene di gente indifesa picchiata in modo barbaro. Poco prima che sapessimo della morte di Carlo mi ricordo che ci mettemmo anche a ripulire una piazza, speravamo di poter risollevare la situazione, che si potesse ancora parlare dei temi per i quali tutti da ogni parte d’Italia e non solo eravamo arrivati a Genova. Poi ci arrivò la voce che era morto un ragazzo e che tutte le piazze e le strade della città erano ridotte in quello stato e quindi lasciammo perdere. Anche nei giorni successivi abbiamo provato a restare ma la situazione era degenerata. Era evidente che in quei giorni si respirava qualcosa di nuovo, che il movimento c’era. Penso che in altro modo non avrebbero potuto distruggere una cosa così bella. La maggiorparte delle persone non poteva ricevere fango addosso come i Black Bloc, eravamo persone normali, pulite e pacifiche. Io, anche se ero molto giovane, ho vissuto anche il movimento del ’68 ma devo dire che il trauma che ho provato dopo Genova non è paragonabile a nient’altro. Da quei giorni il movimento non si è più ripreso, ance se naturalmente di questo me ne resi conto a posteriori. Io ho continuato ad impegnarmi ma non è più stato niente come prima”.
“Partii con alcuni ragazzi dell’Intifada –spiega Simone Alderighi- e partecipai a tutti i giorni di manifestazione. Quella sui migranti devo dire che fu la più bella manifestazione a cui ho partecipato in vita mia, e forse fece molta più paura di quello che pensavamo. Il periodo era fantastico, c’era dialogo e voglia di cambiare le cose. Per i due giorni critici noi assistemmo alle manifestazioni con i Disobbedienti. Avevamo concordato con la polizia di arrivare fino alla Piazza Rossa ma in realtà ci fermarono molto prima. Di lì iniziarono gli scontri. Io mi sono preso solo qualche manganellata perché poi sono riuscito a scappare. La paura che provai in quei momenti non me la scorderò più, le barbarie che ho visto rimarranno per sempre nella mia mente. Piano piano siamo riusciti a tornare indietro, per muoversi nella città dovevamo essere un bel gruppo compatto perché le persone singole venivano picchiate. Anche durante la manifestazione di domenica, alla quale parteciparono anche moltissime famiglie, continuarono ad attaccare in modo disordinato, dalle vie laterali. Picchiavano anche la gente che era sugli scogli. Fu terribile. Quando poi l’ultima sera tornammo a Quarto, dove dormivamo, ci accorgemmo che ci avevano rubato cibo, acqua e soprattutto i rullini delle macchinette fotografiche. Quello che si era creato prima di Genova è stato sicuramente un momento prolifico per le idee e per l’obiettivo comune che intendevamo realizzare. Dopo quei giorni invece è morto tutto. Io mi sono ripiegato in me stesso e non ho più partecipato attivamente all’interno di organizzazioni. Ho nutrito per molti anni una grande rabbia che sento ancora mentre ricordo quei giorni. Da lì in poi quando vedo le forze dell’ordine non ce la faccio più a considerarle degli “amici”, dei “servitori dello stato”.
A.P.
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